Per Berlusconi i guai giudiziari non finiscono mai. La lunga “notte delle procure” continua e il Cavaliere affonda, sempre infilzato in punta di diritto. L’ultimo graffio arriva da Napoli: rinvio a giudizio per compravendita di senatori. Il quadro degli eventi diventa così, per lui, sempre più drammatico. Il rinvio a giudizio di ieri segna infatti un salto qualitativo. La vicenda processuale avrà i suoi tempi ma la sostanza politica però è già nitida. Si profila un attacco al cuore dello Stato. Un colpo che pare persino più grave, se confermato, della sfilza di reati cui già è incappato miseramente per accumulare ricchezza. L’alterazione della funzionalità degli organi costituzionali, con la vile mediazione del pagamento in contanti, è il frutto di una terribile strategia distruttiva che svela la fragilità di una democrazia malata dinanzi a un capitalista che si impossessa dello Stato e lo privatizza.
Non si tratta degli episodi di normale trasformismo parlamentare, dei poco edificanti cambi di casacca dettati da opportunismo, o delle prosaiche trame che sempre sorreggono gli scambi politici. Qui si narra di altro, non di bassi compromessi e di sconce trame politiche, che sempre scandiscono le vicende dei parlamenti quando le idealità sonnecchiano. È in questione l’intervento spudorato del denaro fatto annusare per determinare la caduta dei governi legittimi.
Si ritrova con le spalle al muro, il Cavaliere. E l’incalzare impietoso delle sentenze lo lascia inerme, senza alcuna realistica via di scampo. Berlusconi è un animale ferito, sempre più solo nella sofferenza che precede il commiato. Vede svanire i segnali della grande potenza che fu. E proprio questo esaurimento dell’irresistibile potere antico lo getta sempre più nel rancore. Ce l’ha a morte con le sue truppe. Con quelli che avrebbero dovuto assisterlo sino al sacrificio estremo e invece marciano in ordine sparso. Vorrebbe trovarseli tra le mani i colonnelli da lui stesso nominati e che ora tentano delle comode vie di fuga per sopravvivergli dopo l’evento annunciato.
Ma è solo la cupa rabbia dell’impotenza. Senza un piano, Berlusconi ha deciso di resistere alla cieca scagliandosi contro la furia del destino che sordo lo travolge. Ma avvertirà ben presto che lo scudo della sua antica sovranità è troppo pieno di buchi per resistere ai colpi dei nemici. Ed è troppo visibilmente ammaccato per incutere timore reale ai suoi amici, che ora lo abbandonano in fretta. Modi per sopravvivere agli eventi nefasti, come politico di rango, non ce sono. Si illude se si ostina a cercarli. Le vie della leadership non sono infinite, neanche per un unto del Signore. Un politico deve saper gestire con razionalità anche la sua caduta. Dovrebbe cioè percepire quando è arrivato il tempo di lasciare ad altri il comando, conservando la facoltà di condizionamento e il potere di consiglio. E invece Berlusconi non vuole proprio sentire i richiami della ragione, reagisce isterico al duro principio di realtà. Non esita a tentare i più subdoli colpi di coda per coinvolgere tutti quanti nella sua inevitabile rovina. Ma la sconfitta, quando è senza alternative, va riconosciuta e accettata. Non si scappa dallo scacco che pare definitivo. Neanche l’accusa di aver sfregiato con l’odore dell’oro la democrazia pluralista indurrà Berlusconi a mettersi da parte. Anzi, farà di tutto per far saltare ciò che resta del sistema parlamentare e dell’ordinamento costituzionale. E però qui il discorso scavalca il Cavaliere. Con troppa disinvoltura gli uomini di Alfano e Quagliariello hanno deposto le asce di guerra per tentare delle impossibili ricuciture con il capo. Dopo il gesto di rivolta hanno subito presentato il ramoscello di ulivo. Ma questo procedere ambiguo e timoroso è solo un modo per consegnarsi inermi al supplizio.
Il proposito di salvare tutto il partito, e di collocarlo con le sue forze intatte in una nuova stagione, è fallito. Quando era giunto il tempo per farlo, Berlusconi non ha voluto saperne di gestire questo progetto di istituzionalizzazione di una creatura carismatica irregolare. Solo lui avrebbe potuto imporre ai suoi colonnelli il percorso verso una creatura mostruosa, metà aziendale e metà politica, e cercare di esercitare con i suoi mezzi il controllo. Questo proposito di conservare le forze di un tempo e dispiegarle in una nuova offerta politica è ormai solo un sogno svanito.
Per impedire che Berlusconi faccia ancora del male, i suoi antichi colonnelli, quelli che fanno continue professioni di fede in senso liberale, dovrebbero separare in fretta il loro destino dal Cavaliere ingombrante. Quello che è certo è che la precaria stabilità non può permettersi lo spettro di una convivenza con Berlusconi fotografato mentre morde la gracile democrazia costituzionale.
L’Unità 24.10.13