Negli Stati Uniti e in altre economie avanzate, la percentuale di pil che va ai salari continua a contrarsi, mentre la fetta che va ai profitti aumenta. Quasi tutti i guadagni economici realizzati in America dalla fine della crisi sono andati all’1% più ricco della popolazione, che possiede il grosso degli asset finanziari, mentre il 90% meno abbiente si è ulteriormente impoverito. I singoli stati dell’Unione si sono a loro volta gettati nella mischia, cercando di attrarre investimenti e posti di lavoro – spesso a spese degli stati vicini – con tasse minime, alti sussidi, normative leggere e bassi salari .
Questo, tuttavia, non è un destino ineluttabile. Le nazioni (America inclusa) hanno la possibilità di recuperare un po’ di potere contrattuale rispetto al capitale globale, per esempio rifiutando il gioco al massacro reciproco e unendo invece le forze per fissare requisiti comuni di accesso ai propri mercati. Dopo tutto, il capitale transnazionale dipende dai consumatori e l’accesso a grandi mercati – come gli Stati Uniti e l’Unione Europea – è essenziale alle multinazionali per generare profitti alti e stabili. Perché la Apple, ad esempio, deve poter accedere al mercato statunitense se si rifiuta di pagare la sua giusta quota di tasse necessarie a finanziare l’istruzione e le infrastrutture di cui gli americani necessitano per accrescere il loro tenore di vita? Gli americani possono benissimo smettere di comprare Apple e acquistare invece i prodotti della concorrenza. Analogamente, non ha senso che stati e regioni all’interno dei singoli paesi competano tra loro per i posti di lavoro e gli investimenti; queste pratiche non fanno che rafforzare il capitale globale e indebolire il potere contrattuale dei governi; e non generano nuova occupazione e investimenti, ma si limitano a spostare la prima e i secondi da un luogo all’altro. Dovrebbero essere proibite per legge.
Anche l’Unione europea potrebbe agire da negoziatore o mediatore con le multinazionali per conto dei propri cittadini, se condizionasse l’accesso al suo enorme e lucroso mercato al versamento di tasse proporzionate ai profitti generati in loco e alla realizzazione, in misura analoga, di investimenti produttivi (incluse ricerca e sviluppo).
Qualsiasi iniziativa mirante ad accrescere la forza di uno Stato o di un gruppo di Stati rispetto alle multinazionali provocherà senz’altro forti resistenze. Ma ciò non rende l’obiettivo meno importante; lo rende solo più difficile da raggiungere. Un’altra strada – complementare, non alternativa al coordinamento internazionale – per scongiurare il declino socioeconomico consiste nel forgiare una strategia nazionale per gli Stati Uniti volta ad aumentare l’occupazione e i salari. Quali devono essere i pilastri di tale politica?
Anzitutto, l’aumento della produttività di tutti gli americani attraverso un’istruzione migliore, che parta dall’età prescolare e offra una scuola superiore semigratuita. Ciò comporta una rivoluzione nel modo in cui il paese finanzia l’istruzione pubblica: ad esempio, è folle che la scuola primaria e secondaria in America sia finanziata per metà con le imposte locali sulla casa, cosa che accentua la segregazione geografica per reddito. Inoltre, non ha senso affidarsi al debito studentesco per finanziare l’istruzione superiore dei giovani provenienti da famiglie a reddito medio-basso: ciò si è tradotto in una montagna di debiti che in molti casi risultano inesigibili e ha alimentato il falso mito che l’istruzione superiore sia un investimento privato, piuttosto che un bene pubblico. Innalzare la produttività di tutti gli americani implica anche che scuole e università curino maggiormente la preparazione complessiva degli studenti, non solo i loro risultati ai test di valutazione. L’unico parametro che tali questionari standardizzati misurano con esattezza è l’abilità dell’esaminato di fare un test a risposta multipla; ma nella nuova economia si richiede di risolvere problemi e di pensare fuori dagli schemi, non di rispondere a domande standard.
Un’istruzione migliore è solo il punto di partenza. Occorre sindacalizzare i lavoratori a basso reddito del terziario, per dare loro quel potere contrattuale necessario a conquistare salari più alti. Questi lavoratori – impiegati soprattutto nella grande distribuzione, nelle catene di fast food, negli ospedali e negli alberghi – non sono esposti alla concorrenza globale e svolgono mansioni difficilmente automatizzabili, eppure i loro stipendi e le condizioni di lavoro sono tra le peggiori del paese. Ed è in questi segmenti che si registra l’aumento maggiore di posti di lavoro.
È necessario portare il salario minimo ad almeno la metà di quello medio ed espandere gli sgravi fiscali per i redditi medio-bassi. Le tasse sul lavoro vanno eliminate totalmente entro i primi 15 mila dollari di reddito, e il conseguente ammanco nel bilancio della previdenza sociale va compensato innalzando il prelievo sui redditi non esenti.
Va inoltre ripensato il rapporto tra governo dell’azienda e lavoratori. Ad esempio, si può imporre alle imprese di dare ai loro impiegati pacchetti azionari e maggior voce in capitolo nella conduzione aziendale; ma anche di destinare il 2% dei profitti alla formazione professionale dei dipendenti meno qualificati e pagati.
La generosità del governo verso le aziende dev’essere condizionata all’impegno di queste ultime per la creazione di maggiore e migliore occupazione; ad esempio imponendo a chi riceve finanziamenti pubblici per ricerca e sviluppo di svolgere tali attività negli Stati Uniti.
Bisogna proibire alle imprese di dedurre i costi di remunerazione dei dirigenti oltre una soglia pari a 100 volte la media retributiva dei dipendenti o dei dipendenti delle controllate; e va loro impedito di concedere ai manager benefit esentasse, se non sono conferiti anche al resto dei dipendenti.
Infine, occorre far sì che il sistema finanziario torni a essere uno strumento per investire il risparmio delle nazioni, piuttosto che un casinò dove piazzare scommesse enormi e rischiose, i cui profitti vanno a vantaggio di pochi e i cui costi, quando le cose vanno male, sono puntualmente scaricati sul contribuente e sui piccoli risparmiatori. Ciò vuol dire limitare la dimensione delle maggiori banche e resuscitare il Glass-Steagall Act, varato nel 1933 sull’onda del precedente disastro finanziario per separare nettamente le attività commerciali da quelle speculative. Non esiste una formula magica in grado di generare buona occupazione e i contorni di questa politica nazionale restano imprecisati; ma almeno se ne dovrebbe discutere animatamente. Invece, i profeti del determinismo economico e gli ideologi del libero mercato impediscono persino che un simile dibattito decolli.
Il Sole 24 Ore 24.10.13