Quando nel 2014 l’Italia farà un altro turno di presidenza dell’Unione europea, continuerà a partecipare al G8 con una piccola differenza: per dimensioni dell’economia, non sarà più fra i primi otto.
Dopo la Cina nel 2000 e il Brasile nel 2010, quest’anno la Russia sta compiendo ufficialmente il sorpasso. L’Italia scivola al nono posto per Prodotto interno lordo (Pil), partecipe del G8 per lignaggio politico ma fuori per dimensioni del fatturato, peso economico e capacità di proiettarlo nel mondo. Non è chiaro che valore abbia oggi un club dei “grandi” che esclude una democrazia come il Brasile e tiene dentro Paesi più piccoli, solo perché sono di sviluppo più antico. Forse è qui la radice di quello che il politologo americano Ian Bremmer chiama il mondo del G-zero, un pianeta senza leadership. Certo il riallineamento non si ferma qui: alle tendenze attuali fra non oltre cinque anni l’Italia sarà fuori anche dai primi dieci, scavalcata da Canada e India e relegata all’undicesimo posto; quello per il quale oggi competono Spagna e Corea del Sud.
Forse perché alla Spagna portò sfortuna nel 2006 sbandierare il sorpasso sull’Italia nel reddito procapite, o per l’Italia di Bettino
Craxi fu infausto vantare quello sulla Gran Bretagna di Margaret Thatcher, stavolta è diverso.
Tutto si sta consumando in silenzio. Il presidente russo Vladimir Putin non si fa sfuggire annunci rodomonteschi. Ma la banca dati del Fondo monetario internazionale non lascia dubbi: stimato in dollari a prezzi correnti, il Pil della Federazione russa era allineato all’Italia nel 2012 e sarà superiore di circa 50 miliardi di dollari alla fine del 2013. Sono 2.068 miliardi contro 2.117. Il Brasile è sopra a 2.190; il Canada appena sotto a 1.825 miliardi e l’India segue non distante.
In fondo non c’è quasi niente di sorprendente, nota lo storico dello sviluppo Gianni Toniolo: «Tutti i Paesi europei, uno dopo l’altro, saranno presto superati da economie emergenti con popolazioni più vaste e un livello di benessere degli abitanti più basso – dice -. Se non parleranno con una voce sola, gli europei non saranno più ascoltati».
Eppure Toniolo, docente alla Luiss e alla Duke University negli Stati Uniti, nota un’anomalia: il Canada è un’economia matura, la sua popolazione poco più di metà di quella italiana eppure la sua economia
si prepara al sorpasso. Non è difficile capire perché: le classifiche non diranno tutto, ma il Canada viaggia venti posizioni sopra all’Italia in quella dell’Ocse sul livello di istruzione degli abitanti, sessanta sopra in quella della Banca Mondiale per «facilità di fare impresa» e sessantacinque sempre sopra in quella di Transparency International sulla percezione di corruzione. Quanto a questo, l’Italia batte la Russia in tutto, però l’economia guidata da Putin ha due volte e mezzo gli abitanti dell’Italia e beneficia del superciclo di rincari dei prezzi delle materie prime: è il primo esportatore di gas al mondo e il secondo di petrolio dopo l’Arabia Saudita.
Questo non significa che l’Italia sia condannata a un declino ineluttabile: non se si guarda da dove viene e la strada che ha fatto. Il volume di storia dell’economia del Paese dall’unità, curata da Toniolo per la Banca d’Italia (“Oxford Handbook of the Italian Economy since Unification”) mostra che nel 1861 il 40% degli abitanti del nuovo Regno viveva con quello che oggi sarebbe un euro e mezzo al giorno. L’aspettativa di vita alla nascita era di trent’anni, un bambino su tre non terminava il primo anno di vita, la statura media delle reclute al servizio militare era di 163 centimetri e il Pil per abitante era pari a quello dei 42 Paesi africani meno poveri di oggi. Una nazione così, malgrado un tasso di crescita di zero-virgolaqualcosa nei primi trent’anni di vita unitaria, nel 1870 era già l’ottava economia del mondo: proprio il posto che occupava fino all’anno scorso.
All’epoca le prime due potenze produttive del pianeta erano Cina e India, terza il Regno Unito, quarta gli Stati Uniti e quinta la Russia. Da allora Cina, India e Russia hanno perso terreno durante oltre un secolo, per poi recuperarlo.
Un’altra prova di resistenza dell’economia italiana è arrivata dopo 1945: il debito bellico e i bombardamenti avevano riportato il fatturato in quell’anno ai livelli del 1911, poi il rapido recupero fino alle primissime posizioni del mondo e al riconoscimento ad Aldo Moro a Rambouillet.
Gli ultimi vent’anni rappresentano dunque un record negativo dall’unità in poi, con un tasso di crescita di meno dello 0,5% l’anno e lo scivolamento fuori dalle prime dieci posizioni al mondo. E la dimensione del Pil conta eccome: attrae investitori per l’ampiezza del mercato, consente alle imprese economie di scala che permettono una proiezione all’estero, riduce la dipendenza dal sostegno di altri Paesi. I dati del Fondo monetario mostrano che dal 1980 la Cina è cresciuta di 29 volte, l’India di 9, gli Stati Uniti di 5,8. L’Italia in questo è in linea con Francia, Germania o Gran Bretagna: negli ultimi 40 anni la sua economia si è moltiplicata circa per quattro, non meno delle altre vicine. I tempi lunghi della storia fanno dunque sperare più del presente o dell’ultimo ventennio. Ammesso – ma non concesso che per i senza lavoro e i senza casa che si sono accampati sabato scorso a Porta Pia a Roma, o i milioni rimasti nelle loro città, questa sia davvero una consolazione.
La Repubblica 23.10.13