La legge di stabilità è stata accolta inizialmente in modo favorevole perché, si è detto, «iniziava un percorso innovativo», per poi essere progressivamente sommersa da critiche di vario genere. In verità si ha l’impressione che i critici ignorino, o non si rendano conto, che la legge di stabilità appena varata era l’unica possibile nella situazione data e considerati gli equilibri politici su cui si regge e si basa il governo Letta. Un governo di grandi intese, di natura politica (e non tecnica) non può che produrre nelle sue proposte un equilibrio derivante dalle diverse e talvolta opposte visioni dei componenti la coalizione. Non era lecito quindi attendersi novità di rilievo o riforme radicali che avrebbero provocato polemiche, recriminazioni, fratture e difficoltà per gli attuali equilibri politici. Del resto se la stabilità è un valore, come è stato più volte affermato e ricordato, e come realisticamente occorre riconoscere, sarebbe insensato metterla a rischio in una situazione che rimane precaria e ancora soggetta ai ricatti e ai colpi di coda di Berlusconi. Sempre che sia possibile evitare che la stabilità diventi immobilismo. In altre parole una grande coalizione in Italia sembra avere l’effetto opposto a quello che le attribuiscono i suoi sostenitori, e cioè quello di rendere più difficili le riforme.
È probabilmente per questi motivi che dalla lettura della legge di stabilità sembra emergere l’assenza di una strategia coerente idonea ad affrontare la crisi attuale. Infatti, se, come sembra evidente, l’economia italiana, oltre ai noti e complessi problemi strutturali, soffre di una crisi di domanda provocata dal crollo dei consumi privati e degli investimenti (pubblici e privati) in seguito alle durissime misure di austerità introdotte dal precedente governo, sarebbe stato logico concentrare le poche risorse disponibili su una più rilevante riduzione dell’Irpef e su un maggiore allentamento del patto di stabilità interno in modo da consentire agli enti locali di accelerare la spesa per investimenti diffusi sul territorio e di immediata realizzazione. E da questo punto di vista appare anche discutibile aver disperso una certa quantità di risorse in mille rivoli di misure di sicura rilevanza politica ma incerto impatto economico.
Se invece si fosse ritenuto più utile sostenere la competitività delle nostre imprese esportatrici, le risorse andavano concentrate sulla riduzione del costo del lavoro per le imprese (cuneo). Sarebbe stato un errore, sia perché la misura non avrebbe potuto essere selettiva per ragioni comunitarie e quindi sarebbe andata a beneficio di tutte le imprese e non solo di quelle esportatrici con scarsi risultati pratici, sia perché le esperienze recenti in proposito (e cioè le misure di riduzione del cuneo fiscale del governo Prodi e del governo Monti) non sembrano aver prodotto risultati tangibili, sia perché si tratta di una misura che potrebbe risultare utile dopo che abbia avuto inizio una vera ripresa, ma non per promuovere la ripresa stessa.
Aver seguito, contemporaneamente due strategie diverse, se non opposte, produce l’effetto di ridurre il possibile impatto positivo della manovra sulla crescita.
Va ancora considerato che la manovra presenta alcune problematicità di copertura dal momento che nei prossimi anni si prevede una riduzione della spesa pubblica per 10 miliardi facendo affidamento su una spending review tutta da costruire e da verificare e sulla cui effettiva efficacia nel contesto politico italiano è lecito dubitare. Ciò ha reso necessarie l’introduzione di una clausola di salvaguardia (secondo il discutibile approccio di Tremonti e Berlusconi) che prevede, nel caso in cui i tagli non si materializzino, un aumento semiautomatico di alcune imposte. Sono poi previste alcune entrate straordinarie e una tantum di incerto ammontare, e quindi correttamente non quantificate, di cui già si discute l’utilizzazione (e le proposte vanno tutte in direzione di un aumento della spesa corrente o di riduzione delle imposte), mentre esse dovrebbero essere dedicate interamente alla riduzione del debito pubblico sia per impegni comunitari assunti, che per allentare le pressioni e lo scetticismo dei mercati nei confronti della nostra solvibilità finanziaria.
In tale situazione desta molta preoccupazione l’atteggiamento assunto da più parti volto a richiedere nuovi interventi di spesa o di tagli fiscali sottolineando l’insufficienza della manovra: rispetto a cosa? Rispetto ai desideri e alle fantasie di ciascuno, dal momento che i vincoli di bilancio sono quelli che sono e potranno essere allentati solo gradualmente e se le cose andranno per il verso giusto, cosa niente affatto certa. È impressionante a questo proposito la memoria corta della nostra classe dirigente e il rifiuto di assumersi le proprie responsabilità. Infatti, se la situazione non viene mantenuta sotto controllo il rischio di dover tagliare salari e pensioni in essere, spesa sanitaria e servizi locali sotto il dictat della troika è tutt’altro che remoto.
Vi è infine un’ultima osservazione da fare: l’introduzione della nuova imposta sui servizi consentirà nel 2014 di recuperare l’intero gettito dell’Imu sulla prima casa a carico sostanzialmente delle seconde case e degli affittuari. Tuttavia per il 2013 il problema rimane: si tratta di circa 3 miliardi per i quali è stata promessa l’eliminazione di ogni pagamento. Finora nulla è stato previsto e quindi a dicembre l’imposta dovrebbe essere pagata. E poiché risorse aggiuntive non esistono, la misura non potrà essere finanziata, a meno di non superare il tetto del 3% di deficit. Né sembra percorribile la linea da alcuni prospettata di trasformare la rata Imu di dicembre in un acconto della nuova imposta dal momento che l’Imu è una imposta reale e non personale, sicché l’obbligazione tributaria relativa a un dato immobile potrebbe riguardare un proprietario diverso da un anno all’altro (trasferimenti di residenza, vendita dell’immobile, ecc) e qui un acconto risulterebbe inapplicabile. Ne deriva che a breve termine sono prevedibili ulteriori fibrillazioni nella maggioranza che potrebbero fungere da pretesto per una nuova crisi politica.
L’Unità 22.10.13