«Una Maastricht per la ricerca». È il manifesto programmatico che hanno lanciato, giovedì scorso a Bruxelles, due europarlamentari italiani, Amalia Sartori presidente della Commissione industria, ricerca ed energia e Luigi Berlinguer, già ministro per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca del governo italiano alla fine degli anni 90.
La proposta non è nuova. E andrebbe rafforzata. Ma, oggi più che mai, ha un valore strategico. È una priorità assoluta. L’unica che può far ripartire l’economia creare nuovi posti di lavoro e puntare a uno sviluppo ecologicamente oltre che economicamente sostenibile.
Viviamo – e non è un vezzo accademico ricordarlo – nell’era della conoscenza. In Italia pochi se ne sono accorti, ma ormai i due terzi della ricchezza prodotta nel mondo è ad alto contenuto di conoscenza aggiunto. Non c’è possibilità di crescita economica e neppure di «dolce decrescita» la prospettiva che ha (incredibilmente) proposto di recente per il nostro Paese un noto industriale senza ricerca, scientifica e umanistica, e senza innovazione.
L’Europa o, almeno, parte di essa è l’area che più di ogni altra al mondo sta vivendo la crisi. Non solo e, forse, non tanto per motivi finanziari. Ma anche e, forse, soprattutto, per la sua politica di ricerca scientifica e tecnologica. Una parte dell’Europa – la parte che maggiormente soffre la crisi e che comprende l’Italia – è fuori dall’«economia della conoscenza». Ha un’economia reale che non regge la competizione con il resto del mondo nella produzione di beni e servizi ad alto valore di sapere aggiunto.
Questa parte, Italia in primis, ha bisogno urgente, addirittura impellente, di cambiare modello di sviluppo. E la conoscenza è l’unica opzione che ha, con buona pace di quegli economisti che ci riservano il ruolo di destinazione turistica dei nuovi ricchi dell’Estremo Oriente.
D’altra parte basta una rapida comparazione, per verificare che gli unici Paesi europei che sono fuori dalla crisi e riescono a competere nel mondo della nuova globalizzazione (la Germania, la Svizzera, i Paesi scandinavi), sono i Paesi che investono: nell’alta formazione; nell’industria e nei servizi creativi; nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico.
I Paesi che vivono la crisi (Italia in primis) hanno urgente impellente bisogno di nuove politiche nazionali per un’economia (sostenibile) fondata sulla conoscenza. Sapendo, però, che nessuna politica nazionale da sola può riuscire a ribaltare la condizione di declino, che è un declino europeo (seppure con gradienti nazionali diversi).
Se il problema è del continente, allora solo una politica a scala continentale può risolverlo. Le difficoltà che ha l’Europa a entrare, come comunità regionale, nell’economia della conoscenza lo dicono bene nel loro manifesto Amalia Sartori, del gruppo dei popolari europei, e Luigi Berlinguer, del gruppo dei socialisti europei sono essenzialmente due: la quantità e la qualità degli investimenti; la frammentazione delle politiche.
Per oltre tre secoli l’Europa ha avuto il monopolio pressoché assoluto della produzione di nuova conoscenza scientifica e dell’innovazione tecnologica a essa legata. Per oltre settant’anni ha diviso la partnership mondiale con gli Stati Uniti. Ora fatica a tenere il passo anche non solo dei Paesi di più antica industrializzazione (Usa, Giappone), ma anche e soprattutto dei paesi emergenti. L’Europa laurea meno giovani di altre aree del mondo. L’Europa investe in ricerca meno di altre grandi aree geografiche. Da locomotiva della scienza universale ora rischia di diventare un vagone piombato.
Anche la qualità inizia a mostrare i primi segni di incrinatura. Il programma europeo Horizon 2020 sembra aver dimenticato l’insegnamento dell’americano Vannevar Bush che nel 1945 inaugurò la politica della ricerca e aprì l’orizzonte di una nuova economia ricordando il valore prioritario della scienza di base.
Ma, forse, il dato più preoccupante è la frammentazione. Solo il 5% degli investimenti in ricerca nell’Unione Europea è gestito a livello centrale, dalla Commissione di Bruxelles. Il 95% è gestito da stati gelosi. Con il risultato di avere 27 diverse e spesso divergenti politiche.
L’Europa deve riscoprire il suo rapporto privilegiato con la scienza e con l’innovazione. È un problema culturale. Ma anche politico. Occorre realizzare, finalmente e immediatamente, l’antico progetto di Antonio Ruberti: creare un’area europea della Ricerca. È questo il succo, strategico, del manifesto di Amoresi e Berlinguer. Le loro proposte concrete infrastrutture comuni, carriere comuni, cooperazione e coordinamento vanno nella giusta direzione. Ma, probabilmente, non bastano. Per avere una Maastricht della ricerca occorrono dei vincoli stringenti, come quelli della Maastricht economico/finanziaria. Proviamo a indicarne tre, in aggiunta a quelli di Berlinguer e Sartori. Portare gli investimenti europei in ricerca decisi centralmente a Bruxelles dal 5 al 30% entro il 2020. Fissare al 3% del Prodotto interno lordo la soglia minima degli investimenti in ricerca nazionali (di cui almeno l’1% di fonte pubblica). Fissare come obiettivo per il 2020 una quota di laureati nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni pari ad almeno il 50%. Sapendo che l’Europa e, con essa, l’Italia si salvano non solo e non tanto abbattendo il loro deficit finanziario, ma anche e soprattutto abbattendo il loro (ahinoi) crescente deficit cognitivo.
L’Unità 21.10.13