La Corte di Appello di Milano ha stabilito in due anni il periodo di interdizione di Silvio Berlusconi dai pubblici uffici. Questo, come recitava uno spot del governo di centrodestra alcuni anni fa, è un fatto, che si aggiunge ad altri due fatti: la condanna della Corte di Cassazione per frode fiscale; il voto di fiducia al governo Letta il 2 ottobre quando Berlusconi, in seguito alla presa di posizione dei ministri del Pdl, fu costretto a rimangiarsi la decisione di fare cadere l’esecutivo.
In qualunque altro Paese si prenderebbe atto di questi fatti e si aprirebbe una nuova pagina nelle politiche del centrodestra italiano, chiudendo una stagione ventennale. Invece, come si vede dalle prime reazioni, i pretoriani di Berlusconi – anche quelli che se ne differenziano nel giudizio sul governo – hanno subito cominciato a parlare di persecuzione giudiziaria, di condanne ad personam, di agibilità politica che va comunque garantita al loro capo. È singolare ma non stupefacente, che in questa protesta si distinguano soprattutto le cosiddette colombe, quelli cioè che lo hanno «tradito» (il lemma è di Berlusconi) il 2 ottobre in occasione del voto di fiducia: quasi a volersi ricostituire una verginità e a dichiarare la propria legittimità nell’aspirare alla eredità politica del leader finito. Miserie di cui è costellata la vita politica italiana di questi mesi, istinti darwiniani. Ma il problema è questo: ci sono, nell’ambito del centrodestra attuale, forze che siano in grado, per motivi strategici e non per opportunismo, di avviare una nuova stagione chiudendo il lungo dominio di Berlusconi? Ovviamente non è solo un problema del centrodestra; e che sia all’ordine del giorno è dimostrato proprio dai cataclismi che si producono con ritmo quotidiano sia nel Pdl che in Scelta civica. Partiti che hanno come terreno di scontro l’opposto giudizio sul governo da parter dei «governativi» e dei «lealisti» fedeli al vecchio leader (e anche questo lessico è indice dei processi di feudalizzazione in corso). La principale differenza politica fra costoro si potrebbe esprimere in questi termini: gente come Mauro, Alfano, Lupi, Casini vuole fare propria, mutatis mutandis, l’eredità di Berlusconi; Monti – che qualunque sia il giudizio sulla sua opera di governo è persona di altro livello – vuole rompere con quella eredità e operare, rispetto al ventennio passato, una svolta strategica reale, ancorata effettivamente, e non in forma propagandistica, ai valori e alle politiche del Partito popolare europeo. Nel centrodestra la posta attualmente in gioco è dunque altissima, perché concerne il suo futuro e, come è naturale, anche il giudizio sul passato. E con questo arriviamo al punto centrale del problema, al berlusconismo.
Nonostante lamenti e piagnistei, Berlusconi è ormai personalmente «out» ma il berlusconismo continua ad essere vivo e vegeto. Ed è un sistema profondamente radicato nella politica e nella storia italiana, con proliferazioni anche nello schieramento di centrosinistra (e neppure questa è una novità). La classe dirigente del centrodestra – parlamentari, manager pubblici e privati, giornalisti, cortigiani di diverse competenze – pur avendo varia provenienza (democristiana, radicale, socialista), è berlusconiana come concezione del potere, dei rapporti tra i poteri, come cultura politica e ideologia sociale. È berlusconiana soprattutto nella concezione della democrazia. È gente abituata a muoversi sul terreno del «dominio», un dominio dolciastro, ma sempre «dominio» e in questo senso non è un frutto maligno caduto dal cielo: è profondamente radicata nella storia della destra italiana.
Pensare perciò che d’improvviso possa realizzarsi una conversio – cioè una effettiva e profonda trasformazione – nello schieramento del centrodestra italiano quale si è strutturato negli ultimi venti anni, è una illusione politicistica degna di una fiction televisiva. Si ripete spesso che la fine politica di Berlusconi non coincide con la fine del berlusconismo: giusto, eppure non se ne traggono le necessarie conseguenze. Come ci fu una «cultura» del fascismo, c’è stata una «cultura» del berlusconismo, anche se ci sono voluti molti anni per rassegnarsi a riconoscerlo: una «cultura» materiale e di «massa» diffusa in modi e forme capillari.
Se questo è vero, la costruzione di un nuovo centrodestra e di un efficace bipolarismo – fondamentale per l’Italia – è un lavoro arduo e complicato da svolgere sul piano culturale, politico, sociale, perché implica un’idea dell’Italia e del suo destino negli Stati uniti di Europa. E sarebbe bene che quelli come Monti capissero la profondità e la complessità del problema, se non vogliono continuare ad accumulare sconfitte e generare «traditori» (altro lemma tipico dei tempi).
Così come sarebbe necessario che la sinistra comprendesse che costringere la destra a darsi altre e nuove strategie liquidando il berlusconismo in tutte le sue forme, è un compito che la riguarda direttamente, perché coinvolge il presente e il futuro dell’Italia, e anche se stessa. E che agisse perciò di conseguenza: come direbbe il filosofo, i «contrari» operano nello stesso «soggetto» e ne portano la responsabilità. Altrimenti continueremo a camminare sull’orlo dell’abisso, come stiamo facendo da troppo tempo.
L’Unità 20.10.13