Il mare ha restituito un altro cadavere. È lì sotto. Gonfio. Bianchiccio. Gelatinoso. I pesci si sono mangiati il naso, le orecchie, un pezzo della bocca. E quello che rimane del volto è girato verso l’alto. Le braccia larghe come se fosse crocifisso. E attorno al corpo una macchia bluastra. Dall’elicottero è impossibile dire se sia una vittima del naufragio del 3 o dell’11 ottobre. L’ha avvistato il tenente di vascello Riccardo Chericoni, a tre miglia da Lampedusa. Adesso. Alle 11 di mattina.
Ha identificato il punto e chiamato i soccorsi. È lui che pilota l’AB 212 che integra il lavoro del pattugliatore Vega, una delle cinque navi della marina militare impegnate nell’operazione «Mare Nostrum». Una barriera più umanitaria che difensiva pensata per contenere, come se fosse possibile, questa mattanza che dura da vent’anni. Chericoni ha detto: «C’è qualcosa laggiù». E si è abbassato evitando che le pale sollevassero un’onda. «Che cos’ è quella macchia blu, tenente?». «Il corpo che si sfalda. In un processo che si chiama saponificazione», ha risposto ai due giornalisti a bordo. Poi ha ripreso il volo. Verso sud. E ha girato attorno alla nave Vega che controlla un quadrante largo trenta miglia e lungo novanta, arrivando fino al 34° parallelo, coprendo la rotta battuta dai barconi che partono dalla Libia.
Il ponte, visto dal cielo, è grande come un guscio di noce. Come fa a fermarsi lì sopra? È assurdo. Non c’è abbastanza spazio. Invece c’è. «Possiamo scendere anche su ponti più piccoli. Siamo bravi noi italiani». Il rumore delle pale cessa. Due uomini fissano con le catene l’AB 212. Attorno c’è solo acqua. Uno sterminato orizzonte liquido profondo centinaia di metri. Di notte, nell’oscurità, mette paura. Che cosa devi avere in testa per affrontarlo a bordo di una bagnarola di legno?
La nave Vega è un pattugliatore d’altura, con un equipaggio di sessanta persone. Adesso, a bordo, ci sono anche otto uomini del reparto speciale San Marco. Un medico. Un infermiere. In più l’elicottero. È fuori da domenica scorsa. Ci resterà per altri otto giorni. Nelle sue ultime due settimane in mare è intervenuta sette volte, caricando 330 naufraghi, scortandone altrettanti fino a Lampedusa. Il comandante è il tenente di vascello Giovanni Urro, un pugliese di 34 anni con i lineamenti da James Franco. Ha organizzato i suoi uomini in tre turni di otto ore. «Siamo in grado di intervenire pressoché in ogni condizione. Ci aiuta una strumentazione sofisticata». Radar, visori a infrarossi, sistemi satellitari. Una rete difficile da penetrare adesso che le navi in ricognizione sono raddoppiate. «Non ci si può avvicinare ai barconi. Sarebbe il caos. Spesso sono lunghi dieci metri e magari portano più di duecento persone l’uno. Molti si butterebbero a mare per cercare di salire sulla Vega da soli». Così in acqua viene calata una scialuppa che fa la spola offrendo il primo soccorso. Salvagenti individuali. Cibo, acqua, coperte. C’è sempre odore di marcio. Di decomposizione. La puzza di benzina si mischia a quella degli escrementi, del sudo
«Sul ponte li visitiamo e facciamo un primo censimento. È il momento in cui diventa chiaro che queste persone non sono numeri. Sono spaventati, confusi, ma rimangono calmi». Come se il dolore avesse insegnato loro l’economia dei gesti. Ma soprattutto la necessità di affidarsi al destino. Quando sono fortunati quel destino è la Vega. Diversamente è la saponificazione. «Spesso diamo loro i vestiti che i nostri uomini hanno portato da casa. E i piccoli avresti voglia di adottarli tutti». Come diceva Chericoni? «Siamo bravi, noi italiani». A volte. Non sempre. Non tutti. Questi sì.
Di notte i bambini dormono agitati. Gridano. Si alzano. Sono angeli sonnambuli. Le mamme li abbracciano, li baciano, promettendo di proteggerli per sempre. «All’inizio ci chiedevamo perché molti ragazzini attorno a dieci anni avessero i capelli rasati. Poi abbiamo capito». Massimiliano Rossignolo, secondo in comando, accende il computer della saletta operativa. Mostra una serie di filmati. Di fotografie. Cataste di esseri umani appiccicati come galline bagnate. Molti sono feriti. Alcuni hanno le braccia e le gambe rotte. Perché? «Una donna eritrea mi ha raccontato il suo calvario. È emblematico». La fuga dal Paese, a piedi, tre mesi per arrivare in Libia. Le botte degli scafisti. Lo stupro. «Ora vattene o ti ammazziamo». L’incubo del mare. L’arrivo sulla Vega. «Mi ha detto che radono le bambine per proteggerle. A dieci anni, senza seno, è difficile distinguerle dai maschi, così nessuno pensa di violentarle». Gli si arrossano gli occhi. «Le ossa rotte, invece, sono frutto dei pestaggi».
Sul monitor passano le immagini di corpi sottili come ombre, che evidentemente si sentono il canale di una pena che viene dal passato e che attraverso i viaggi, e soprattutto gli occhi di molte generazioni, inclusa la loro, si trasformerà prima o poi in vita vera. Oggi essere umiliati, defraudati, stuprati, lo considerano l’inevitabile il prezzo da pagare. «Viaggiano in mezzo al loro vomito, perché quando finiscono l’acqua dolce usano quella di mare e il loro stomaco non regge. Li troviamo sempre disidratati e febbricitanti», dice Sebastiano Laudani, il medico di bordo. Un’umanità persa nei labirinti della Creazione, che si aggrappa alle navi come alla fonte di una nuova vita. «Non è così. Loro lo sanno. Noi lo sappiano. Ma cerchiamo di dargli un po’ di conforto. E loro lo danno a noi».
I clandestini questo calore se lo appiccicano addosso come una seconda pelle, eppure mentre la terra si avvicina anche i respiri, che confondono il sollievo con la malinconia, tra le loro labbra continuano a sembrare singhiozzi.
La Stampa 20.10.13