«La ricerca scientifica ha cambiato il mondo. Ora deve cambiare se stessa ». Il monito arriva dall’ Economist , che questa settimana dedica la copertina alla vulnerabilità della scienza agli errori. Il settimanale economico non è tenero: sostiene che il successo del passato è padre del cedimento attuale. Che i ricercatori d’oggi, per sopravvivere in un ambiente sempre più competitivo, sfornano risultati in quantità a scapito della qualità. Anzi «a detrimento della scienza e dell’umanit à». Una vera strigliata. Ma lo stato di salute della nobile impresa della conoscenza è davvero così precario?
Prima di rispondere vale la pena di passare in rassegna le condivisibili argomentazioni che l’Economist sviluppa per arrivare alla sua diagnosi. Troppo spesso gli esperimenti sono mal progettati. Non sempre i ricercatori padroneggiano gli strumenti statistici necessari per interpretare i dati. A volte cedono all’umana tentazione di addomesticare i risultati senza esserne pienamente consapevoli. In qualche raro ma gravissimo caso, truccano le carte scientemente, con dolo. Ma il problema principale non sono i singoli ricercatori che, per quanto cognitivamente allenati, possono sbagliare come gli altri uomini. La questione cruciale sono le debolezze del sistema, che cominciano con i criteri di erogazione dei finanziamenti e arrivano alle regole adottate dalle riviste scientifiche per decidere cosa sia meritevole di pubblicazione. È in queste sedi che vengono a mancare i giusti incentivi, nota correttamente l’Economist . Ecco un esempio: replicare l’esperimento svolto da altri, per verificarne l’affidabilit à, è costoso e se i risultati vengono confermati non c’è nulla di nuovo da pubblicare. Anche se il lavoro è stato utile e faticoso, il gruppo che lo ha svolto sembrerà poco produttivo. Ed ecco un altro esempio: supponiamo di cercare la correlazione tra due fenomeni e di non trovarla. Ben poche riviste scientifiche saranno interessate a pubblicare questo «non-risultato», ma se di questo lavoro non resta traccia è possibile che altri ricercatori si perderanno nello stesso vicolo cieco.
Tutte queste bucce di banana seminate lungo le strade della scienza hanno prodotto clamorosi scivoloni. L’anno scorso su Nature abbiamo letto che solo 6 studi di oncologia su 53 avevano superato la prova della riproducibilità. Nell’ultimo decennio circa 80.000 persone hanno preso parte a sperimentazioni cliniche basate su ricerche che poi si sono rivelate inadeguate. Per fortuna generalmente gli errori vengono riconosciuti prima che i candidati farmaci si affaccino sul mercato, perciò i pazienti non sono danneggiati. I fallimenti, comunque, non sono una peculiarità delle scienze biomediche, riguardano tutti i settori. Nel 2005 un epidemiologo di Stanford ha sostenuto, in base a ragionamenti statistici, che «probabilmente la maggior parte dei risultati pubblicati sono falsi». Il mese scorso Science ha raccontato di uno studio appositamente sbagliato, inviato a 304 riviste scientifiche di seconda scelta per vedere quante avrebbero accettato di pubblicarlo. Hanno risposto positivamente in 157. Qualche anno fa uno scherzo del genere l’aveva orchestrato il British Medical Journal . La malattia è grave dunque, anzi è un’epidemia? Fermiamoci un momento prima di annuire. Leggendo questo articolo avrete notato che tutti i dati ripresi dall’Economist vengono da scienziati e riviste scientifiche. Persino le trappole usate per smascherare i punti deboli del sistema sono state piazzate dagli scienziati per allertare altri scienziati. Non è questa la dimostrazione più convincente che la scienza sa di essere fallibile e si auto-controlla con una severità sconosciuta in altri campi del sapere e dell’agire umano? Finché continuerà a farlo, vorrà dire che le fondamenta sono sane, che ci possiamo fidare.
Il Corriere della Sera 10.10.13