Il lamento è ormai diventato un luogo comune: gli italiani non hanno senso dello Stato. Ma come si fa ad averlo, se neanche lo Stato ha senso dello Stato? Il grottesco balletto funebre della salma di Priebke nella provincia romana, tra omaggi neonazisti e aggressioni di discendenti delle sue vittime, lo dimostra, purtroppo, con una evidenza umiliante. Come facciamo a pretendere che i nostri concittadini rispettino le istituzioni, osservino le leggi, paghino le tasse a uno Stato che, di fronte a un caso del genere, offre all’opinione pubblica, anche internazionale, un tale squallido spettacolo?
Era davvero imprevedibile che la morte del centenario criminale nazista non aspettasse decenni per porre il problema della sua sepoltura? È ammissibile che sul caso del responsabile di uno dei più sconvolgenti delitti della follia umana, o meglio disumana, lo Stato italiano riuscisse a squadernare tutti i peggiori e i più meschini difetti del nostro pubblico costume: l’improvvisazione, la piccola furbizia, il palleggio delle responsabilità, l’assoluta mancanza di autorevolezza e di credibilità dei suoi funzionari?
Ripercorrere le scene che, in questi giorni, si sono succedute all’annuncio della scomparsa di Priebke è come rivedere, in flashback, un film dell’orrore, l’orrore di uno Stato assente, incapace di prendere una seria decisione, una istituzione che abdica i suoi poteri a chi, di volta in volta, si arroga il diritto di esercitarli. Compare un avvocato dagli annunci irresponsabili, spunta una fantomatica congrega di nostalgici lefebvriani, s’infuria un sindaco alle prese con un problema certamente più grande di lui, si agita un prefetto che, prima autorizza i funerali e, poi, è costretto a vietarli, di fronte alle più che prevedibili conseguenze delle sue sconsiderate decisioni. Così, appaiono sui video di tutto il mondo spettacoli che abbiamo sempre pensato potessero arrivare solo da qualche Paese mediorientale alla caduta del dittatore di turno, con la bara di un uomo, sia pure un criminale, sballottata tra insulti, calci, sputi e cori di impudente omaggio nostalgico, costretta prima a sfuggire all’assedio con una manovra diversiva all’ombra delle tenebre e, poi, a riparare addirittura in un’aeroporto militare, senza che nessuno possa neanche immaginare la sua destinazione finale.
Neanche la notte porta consiglio, perché ieri la scena, questa volta spostata dal fuoco della piazza alle austere stanze della diplomazia, non cambia: si susseguono assicurazioni sull’intervento della Germania e secche smentite da parte dell’ambasciata tedesca che, in serata, precisa di non potersi occupare di una questione che riguarda la sola competenza dell’Italia. Confusione, imbarazzo e qualche piccola bugia fanno ancora da vergognosa colonna sonora a un film davvero da brivido, perché mostra uno Stato ormai svuotato, assente, incapace di far fronte alle responsabilità di una istituzione a cui, secondo il patto fondamentale stretto tra i cittadini, è affidata non solo la rappresentanza degli interessi degli italiani, ma la rappresentanza dell’onorabilità degli italiani di fronte al mondo. Quello Stato che, al di là delle diverse opinioni dei suoi abitanti, delle loro diversità ideologiche, delle diverse sensibilità, magari anche dei contrastanti umori e risentimenti, giustifica ancora la necessità, ma anche la voglia, di riconoscersi in una sola nazione.
Se questa è la penosa rappresentazione di impotenza istituzionale offerta dal nostro Paese, non ci possiamo meravigliare che cerchino visibilità mediatica confusi epigoni nostrani del negazionismo storico come Odifreddi o che pseudo estremisti di sinistra come i grillini vadano in caccia di trasversali consensi tra i nostrani pseudo estremisti di destra, bloccando la rapida approvazione della legge che istituisce il reato di apologia del nazismo e dell’antisemitismo.
Eppure ci dev’essere un limite al disfacimento del nostro Stato nel silenzio un po’ complice dei suoi abitanti e, forse, lo squallido spettacolo di questi giorni servirà almeno a impedire che qualche italiano possa dire di non essersene accorto.
La Stampa 17.10.13