«Amud, Amud, vieni». Sta seduto per terra a gambe incrociate Amud (ma si chiamerà veramente così?) mentre una dolce signora che potrebbe essere sua nonna gli tende la mano in una cucina pervasa dal buon profumo del pranzo. Ma le nocche della manina di Amud sono strette attorno alla macchinetta rossa che gli hanno regalato appena ha messo piede a terra e i suoi occhi, neri e profondi come non dovrebbero mai essere quelli di un bambino così piccolo, guardano fissi un punto nel vuoto, davanti a lui. Chissà cosa “guarda” Amud o forse chissà quali sconvolgenti immagini “vede” questo bimbo siriano fuggito con la sua famiglia dalle bombe nel suo paese e sopravvissuto all’ultimo terribile naufragio nel Canale di Sicilia. Lo ha salvato quella incredibile catena umana di profughi che l’11 ottobre, tra Malta e Lampedusa, è riuscita a rimanere a galla affidando poi nelle mani dei soccorritori quanti più bimbi possibile. Erano tanti, troppi a bordo di quel barcone prima preso a colpi di mitra dalle motovedette libiche e poi capovoltosi nel tentativo di attirare l’attenzione di un aereo maltese che lo sorvolava. In sei, tutti piccolissimi, sono rimasti vivi, ma soli. Almeno per il momento.
L’orfanotrofio del mare è una candida villetta a due piani all’ingresso di Menfi, nella Valle del Belice. Un bel prato verde, due palme, un patio con tutti i giochi che entusiasmano i bambini, scivoli, casette di plastica, giostrine, una grande tv con i cartoni animati. Ma niente sembra riuscire, anche solo per qualche minuto, a restituire alla loro infanzia questi bambini che non sembrano più tali. Bimbi senza più mamma e papà, senza famiglia, senza amore e persino senza nome. Perché nessuno sa da dove vengono, con chi erano, come si chiamano e quanti anni hanno. I più piccoli, come Salvatore (lo hanno chiamato così dal nome del suo “salvatore”) che non ha neanche un anno, ovviamente non parlano, ma gli altri (dai due anni e mezzo ai sette anni) sarebbero in grado di dire questo (e probabilmente molto altro) se solo ad aiutare gli operatori dell’istituto Walden di Menfi ci fosse un mediatore culturale. «Per ora l’unica cosa che abbiamo capito — raccontano — è che per dire no dicono “laa”. Poi comunicano a gesti e ogni tanto ripetono qualche parola che gli diciamo: cane e biscotti. E poi invocano la mamma. Quando piangono o durante la notte, gridano: “Mam, maam…”».
Di notti ne sono passate già cinque da quando sono finiti nel mare nero e profondo che ha inghiottito i loro genitori ma ieri è stata la prima in cui hanno riposato un po’. «Le prime notti dovevano avere incubi continui — racconta Michele, il responsabile della comunità — non riuscivano a dormire, piangevano continuamente, avevano sussulti. Li abbiamo lasciati tutti insieme, i tre fratellini e gli altri tre bambini, abbiamo capito che si sentivano più sicuri». Parlano tra di loro Yara, Joseph, Amud e Karim, i quattro più grandi. Quando li hanno portati alla casa di accoglienza per minori, i poliziotti della questura di Agrigento li hanno indicati con questi nomi, chissà forse riferiti dagli altri profughi siriani che sulla nave della Marina militare avevano potuto scambiare qualche parola con loro. Ma se li chiami non si girano neanche. E però tendono continuamente le manine. Alle ragazze della casa che si prendono cura di loro, ma anche a chi, come noi, è andato a trovarli. Tendono la manina per camminare insieme, per condurti da una parte o dall’altra. Lo fanno con quegli occhi così tristi e impauriti che è davvero difficile reggere il loro sguardo e provare a scaldarli con un sorriso. Perché tanto al sorriso non rispondono. Proprio non ci riescono.
Cercano il contatto fisico continuamente. Persino Kitty, diciotto mesi, che trova pace solo in braccio alle ragazze che la cullano giorno e notte, con il visino appoggiato sul seno. «Appena proviamo a metterla giù piange in modo straziante». L’hanno chiamata così per quella collanina con il ciondolino di Hello Kitty che porta al collo. Un particolare che potrebbe salvarle la vita una seconda volta. Perché Kitty forse i genitori ce li ha ancora. Potrebbe essere lei la “Maram” di 17 mesi che da cinque giorni a Malta una giovane mamma cerca disperatamente. Aisha, 25 anni, libanese sposata con un siriano, ne è sicura: «Mia figlia deve essere viva. Quando mi hanno tirato su da quella zattera, Maram era in braccio a me e stava bene. Me l’ha tolta dalle braccia uno dei soccorritori. Aiutatemi a trovarla». Al centro di accoglienza de La Valletta Maram non c’è. Ma nella confusione dei soccorsi potrebbe essere finita nelle mani di uno dei marinai della nave Libra e da lì sbarcata a Porto Empedocle. Se fosse così, quella collanina di Hello Kitty potrebbe essere il filo per ricongiungerla ai suoi genitori.
Karim, sette anni, il più grande dei bimbi dell’orfanotrofio del mare è l’unico che parla. Alla dipendente di una cantina vinicola di Menfi di origine siriana dice: «Mio padre era su un’altra barca. Verrà a prendermi». Disegna la bandiera siriana e scrive un numero. Potrebbe essere quello di un telefono? Chissà?
Ricongiungimenti difficili, ostacolati dalla lingua, dalla distanza e dalla burocrazia ma ai qualilavoranoleforzedell’ordine e il personale dell’Unhcr e di diverse Ong. Perché adesso Kitty, Salvatore, Yara, Joseph, Amud e Karim sono sotto la giurisdizione del tribunale dei minori e qualsiasi loro movimento deve passare da lì. Per loro come per tutti gli altri minori non accompagnati che ogni giorno sbarcano sulle coste siciliane. Un numero esorbitante: 3319 solo dall’inizio dell’anno ad oggi, tre volte di più rispetto allo scorso anno. Per lo più si tratta di adolescenti, tra gli 11 e i 17 anni, ragazzini che finiscono per scomparire nel nulla. Due su tre, dopo qualche settimana in comunità escono e non tornano più. È successo ancora ieri a Caltagirone, dove sono scappati in dieci dei superstiti del naufragio di Lampedusa. Salgono su un treno con destinazione ignota o, peggio ancora, finiscono nelle mani di organizzazioni criminali che li contattano e che talvolta chiedono persino riscatti alle famiglie rimaste nei paesi di provenienza. E nessuno qui li cerca più. Un problema in meno per lo Stato che non ha più i soldi per pagare le convenzioni con le case famiglia. Gli affidi e le adozioni dei più piccoli (che in questi giorni in tanti chiedono) difficilmente riescono ad andare in porto. I 25 bambini che ormai da diverse settimane sono nella casa di accoglienza di Piana degli Albanesi, ad esempio, aspettano ancora la nomina del tutore. Senza quello è come se non esistessero, non possono andare neanche a scuola. Troppe pastoie burocratiche trasformano questi bambini in piccoli fantasmi di cui presto nessuno si ricorderà più.
La Repubblica 17.10.13