Non c’è nulla da eccepire a quanto sostengono i saggi della Commissione per le riforme costituzionali: il nuovo sistema elettorale deve rispondere a tre esigenze fondamentali. Nell’ordine: ridurre la frammentazione partitica; favorire la costruzione di una maggioranza; ricostruire un rapporto di fiducia e responsabilità tra elettori ed eletti. Ottimi propositi. Peccato che la Commissione, dovendo tener conto delle varie posizioni, offra un ventaglio di soluzioni pratiche molto ampio e, inevitabilmente, contraddittorio. E dire che, per rispondere alle tre esigenze, esiste un sistema già sperimentato, qui da noi e altrove: il sistema maggioritario a doppio turno con sbarramento; quello adottato in Francia dal 1958 per l’elezione dei deputati, e in Italia, in versione semplificata, per i sindaci. Questo sistema si basa su una competizione in due fasi, due turni , appunto. Vi è una prima votazione nella quale ogni partito “fa la sua gara” presentando un proprio candidato in ciascun collegio (e i collegi sono tanti quanti sono i deputati da eleggere). Vi è poi, a distanza di una settimana o di 15 giorni, una seconda votazione alla quale partecipano solo i candidati di quei partiti che, in quel collegio, hanno superato una soglia di sbarramento, una quota minima di voti. Viene infine eletto chi, a questo secondo turno, ottiene il maggior numero di voti. Perché questo è un buon sistema elettorale e per di più
rispondente alle giuste esigenze sottolineate dai saggi? Perché nessuno parte necessariamente sconfitto: al primo turno un brillante candidato di un piccolo partito può superare la soglia di sbarramento. Perché pur “aprendo” la competizione anche ai partiti minori non favorisce la frammentazione in quanto la soglia di sbarramento – che deve essere alta, almeno il 15% dei votanti – punisce le liste velleitarie. Perché facilita le aggregazioni tra i partiti al fine di presentare un candidato comune tanto al primo turno (per superare lo sbarramento) quanto al secondo turno (per vincere). Perché le alleanze sono fatte alla luce del sole e prima del voto, prefigurando in tal modo le future coalizioni governative. Perché si vota un candidato che diventa il rappresentante di quel collegio e al quale i cittadini possono fare riferimento. Perché, infine, chi vince raccoglie una quota di consensi elevata – a volte la maggioranza assoluta di più del 50,1% dei voti – e quindi ottiene una forte legittimazione da parte dell’elettorato, contrariamente a quanto accade nel sistema maggioritario a un turno unico dove, a volte, il candidato è eletto con appena il 30% dei voti.
Riduzione della frammentazione, prefigurazione di una maggioranza governativa, rafforzamento del rapporto cittadini-rappresentanti sono tutti effetti positivi del maggioritario a doppio turno. In più, si tratta di un sistema semplice, dalle regole chiare e trasparenti, un sistema privo di trabocchetti e misteri. Il Mattarellum, al contrario, era un sistema pieno di arzigogoli incomprensibili – lo scorporo – e per di più rimaneva un ibrido mal congegnato di maggioritario e proporzionale. Anche il maggioritario a turno unico, pur vantando grande semplicità di funzionamento, ha i suoi difetti, dalla brutalità di una eccessiva semplificazione del panorama partitico alla bassa quota di voti con cui si può essere eletti.
Nonostante siano evidenti i benefit del sistema francese (maggiore rispondenza verso gli elettori, maggiore legittimità degli eletti, maggiore trasparenza delle alleanze), in Parlamento continuano a circolare proposte di sistemi elettorali tortuosi e complicati. Solo ora un gruppo di parlamentari del Pd ha preso posizione a favore del doppio turno. Sarebbe tempo che il maggior partito si assumesse la responsabilità di indicare pubblicamente la sua opzione in favore di questo sistema elettorale e lasciasse ad altri l’onore di dimostrare gli eventuali meriti di altre proposte. A volte, nella nostra politica, semplicità e chiarezza sembrano essere difetti insuperabili.
La Repubblica 17.10.13