Il Ministro dell’Economia si era presentato a Palazzo Chigi con la sua proposta più importante in cartella: meno spese per quattro miliardi nella sanità, in modo da finanziare il taglio delle imposte sul lavoro e le imprese nei prossimi anni. Invece le obiezioni di alcuni degli altri ministri, a partire da quello alla Salute Beatrice Lorenzin, hanno prevalso in pochi minuti. A Consiglio in corso, a poche ore dalla scadenza di mezzanotte entro cui andava spedito a Bruxelles il testo, al governo mancavano ancora le risorse per le sue iniziative di cartello del 2014.
La fragilità di tante delle misure poi approvate è dunque facile da capire, ma questo non le renderà più accettabili all’esame che è già partito in Europa. Degli 8,6 miliardi di
euro alla voce «risorse», più della metà restano vaghi: sono entrate non ripetibili a fronte di oneri di bilancio permanenti, oppure hanno un impatto così incerto che neanche il governo oggi è in grado di valutare quanto frutteranno. Se nulla cambia nei prossimi giorni, difficile che difetti del genere sfuggano alla lente della Commissione e all’Eurogruppo dei ministri finanziari. Il rischio che Bruxelles chieda al governo di correggere alla manovra non è affatto scongiurato.
Il problema non sono solo i tagli di spesa che, fino a nuove informazioni, restano in buona parte da precisare. Sul bilancio dello Stato vanno trovati 2,5 miliardi di minori uscite sulle quali per ora si sa poco; ancora meno chiaro è come le Regioni contribuiranno con un altro miliardo di tagli, a maggior ragione dal momento che la loro voce di spesa principale, la sanità, non dev’essere toccata.
Ma è soprattutto il secondo punto della manovra alla voce «risorse» a sollevare dubbi. Si parla di 3,2 miliardi derivati da «dismissioni, rivalutazione cespiti e partecipazioni, trattamento perdite». Che significa? In primo luogo il governo annuncia, dopo aver già compiuto una scelta simile nella manovrina d’autunno, un altro mezzo miliardo di finanziamento attraverso la vendita di beni demaniali. È come fare la spesa vendendo un mobile di casa, invece di usare quelle entrate
straordinarie per ripagare vecchi debiti. Eurostat, l’agenzia statistica Ue, di solito vieta di ridurre il fabbisogno annuale con operazioni del genere. Nel caso degli immobili, è vero, si possono fare eccezioni se è provato (come?) che il ricavo della vendita non alimenta spese correnti. Ma per Bruxelles queste non sono comunque operazioni che incidano in modo sostanziale su un bilancio. Il cosiddetto «deficit strutturale » così non cala. Con un problema in più: nella manovrina d’autunno, quei beni sono passati dallo Stato alla Cassa depositi e prestiti in cui lo Stato ha una quota dell’80% e una maggioranza di membri in consiglio d’amministrazione. È stata un’operazione fra parti correlate, non una cessione sul mercato. Formalmente Cdp è fuori dal bilancio pubblico, però non è affatto chiaro che quel trasferimento di immobili sia avvenuto a prezzi che un compratore indipendente avrebbe accettato. Ripetere quel tipo di operazione nel 2014 non farebbe che moltiplicare i dubbi già diffusi in Europa sulla direzione che l’Italia sta prendendo.
Ci sono poi altri 2,2 miliardi che in teoria – entreranno nelle casse dello Stato con la «revisione del trattamento delle perdite di banche, assicurazioni e altri intermediari». In sostanza il governo offre più deduzioni fiscali alle banche che subiscono perdite quando i clienti non rimborsano loro i prestiti. È una scelta ragionevole per aiutare gli istituti a disfarsi delle sofferenze. Ma ciò dovrebbe fruttare allo Stato oltre due miliardi in più l’anno prossimo. Possibile? Il calcolo deriva dal fatto che le banche nel 2014 potranno portare a deduzione solo un quinto delle perdite su credito, poi il resto nei cinque anni successivi. Ma i calcoli di Gianluca Codagnone e Fabrizio Bernanrdi, due analisti di Fidentiis, suggeriscono che il governo ne deriverà introiti in più nel 2014 solo se le banche porteranno a detrazione perdite ben al di sotto dell’1,5% dei crediti erogati. Con il rapido aumento in corso delle sofferenze bancarie, è una speranza eroica. Vari grossi istituti viaggiano già sopra l’1,5%. In sostanza il governo basa importanti stime di entrate su un fattore sul quale non ha controllo (lo hanno le banche) e, di nuovo, cercando comunque di spostare sull’anno prossimo risorse che poi verranno meno in quelli successivi.
Le banche aspettano anche che le loro quote nella Banca d’Italia siano rivalutate al termine delle stime attualmente in corso. Quell’operazione può generare circa un miliardo di entrate fiscali in più per le plusvalenze finanziarie degli istituti azionisti: i soldi servirebbero per il pagamento dei debiti commerciali dello Stato alle imprese fornitrici. La Banca centrale europea vuol vedere la manovra e, per ora, non sembra contestare questa parte. Difficile comunque che una revisione contabile sul valore di Bankitalia compia il miracolo di far quadrare i conti dello Stato. In realtà il Tesoro ci pensa neppure. A meno che, prima o poi, qualcuno non sia tentato davvero di ripianare i conti rivalutando ai prezzi di oggi l’oro custodito da generazioni nei caveau di Via Nazionale (e della Fed di New York per conto dell’Italia). Quello sì che sarebbe raschiare il fondo del barile.
La Repubblica 17.10.13