La legge di Stabilità approvata ieri dal Consiglio dei ministri delinea un orientamento abbastanza chiaro della politica economica per i prossimi tre anni. Il cuore della manovra è rappresentato da riduzioni graduali di spesa pubblica, in modo da consentire un alleggerimento della pressione fiscale su imprese e lavoro.
L’obiettivo coincide nella direzione, se non nelle quantità, con le richieste che erano state formulate dalle parti sociali nel «Patto di Genova» dello scorso settembre, nonché con le raccomandazioni dell’Unione europea e delle altre organizzazioni internazionali.
Come negli altri Paesi della cosiddetta periferia europea, si cerca di recuperare la competitività perduta negli ultimi anni attraverso una svalutazione ottenuta per via fiscale. Questa è la direzione giusta da percorrere e c’è da augurarsi che nella discussione che farà il Parlamento circa il perimetro della nuova Service tax, anche sulla prima casa, si tenga conto che l’esigenza primaria dell’economia italiana è di ridurre il cuneo fiscale sul lavoro.
La questione di cui si discute è l’entità della manovra. Secondo molti, essa è in- sufficiente ad affrontare i problemi cruciali dell’economia italiana. In queste ulti- me ore è stato detto che questa non è una finanziaria di svolta, come invece sarebbe stato necessario; che è una finanziaria democristiana, volta a non scontentare nessuno e quindi inadatta ad accontenta- re il Paese; che è la finanziaria delle larghe intese e in quanto tale incapace di operare delle scelte ben definite.
Occorre riconoscere che la legge di stabilità delude le aspettative che si erano generate nella società italiana e che in qualche misura erano state alimentate dallo stesso governo. La questione però è se fossero in qualche modo eccessive le aspettative o se siano insufficienti le misure che sono state assunte. La mia valutazione è che fossero sproporzionate le aspettative, e i motivi sono stati spiegati più e più volte dal ministro Saccomanni. Negli ultimi anni la spesa pubblica è stata notevolmente ridotta e la programmazione per il 2013 e il 2014 è già assai stringente; gli spazi per ulteriori riduzioni ci so- no, ma richiedono tempo e sono nell’ordine di alcuni miliardi di euro l’anno, non certo nell’ordine delle decine di miliardi. Il ministro Saccomanni è quanto di più lontano si possa immaginare da un maggiorente della Democrazia Cristiana, con un proprio elettorato da soddisfare. I con- tributi alla scrittura di questa finanziaria sono venuti da tutte le parti politiche, anche da quel Pdl che si erge a sentinella anti tasse e che nelle pubbliche dichiarazioni sostiene che su una spesa da 800 miliardi non vi è nulla di più facile che fare tagli per 80 miliardi. Eppure il fatto evidente è che dal Pdl e dai suoi esperti economici non è venuta una sola idea in più. Tutto ciò che era possibile e pratica- bile in termini di riduzione delle spese è incorporato in questa manovra.
In teoria, si potrebbe concludere che, al di là delle pubbliche dichiarazioni, il Pdl sia più interessato a difendere le lobby della spesa che a ridurre le tasse. E che lo stesso valga per Pd e Scelta Civica.
Se così fosse bisognerebbe prendersela con i partiti che sono stati votati dagli italiani e non tanto con il governo delle larghe intese. Una spiegazione molto più sensata è che ha ragione Saccomanni e che i tagli di spesa devono essere gradua- li. In ogni caso non si capisce perché puntare il dito contro le larghe intese. Quale che sia la spiegazione – le lobby o i fatti di Saccomanni – è evidente che se oggi ci fosse un governo monocolore, di centro-sinistra o di centro-destra, Imu a parte, sul bilancio pubblico non si farebbero scelte molto diverse da quelle che sta facendo il governo Letta. Peraltro è da anni che si dice che i governi non sanno tagliare la spesa, che ci sono enormi sprechi che non vengono aggrediti e che l’esito delle politiche è il solo aumento della tassazione. Sembra quasi che il problema sia che i posti di comando sono sempre occupati dalle persone sbagliate, mentre quelli che sanno cosa fare sono sempre costretti a stare in panchina a commentare.
È giusto tenere sotto pressione i governi nazionale e locali, perché tengano sotto controllo la spesa. Senza questa pressione rischieremmo di essere sommersi dalla voracità della macchina pubblica. Ma le aspettative devono essere commisurate a ciò che è concretamente realizzabile. Altrimenti si finisce per fare come Berlusconi che divorava i suoi stessi governi: invocava la famosa frustata al cavallo dell’economia, come oggi si invoca la finanziaria della provvidenza. La frustata non arrivava mai, perché non poteva arrivare, e la conclusione era che bisognava castigare un qualche nemico: Casini, Fini, Tremonti, Merkel, i magistrati, i giornalisti, la Costituzione ecc. In questo modo si sono messe in circolazione quantità mortali di veleno. Una classe dirigente de- ve saper fare di meglio. È scoraggiante che anche a sinistra ci siano tanti nostalgici della frustata di Berlusconi, quella che non arrivò mai. E che in tanti abbiano individuato i nuovi capri espiatori nel Ministro dell’Economia e nel binomio Letta-Alfano. È ora che ciascuno si assuma la propria quota di responsabilità nelle scelte collettive.
L’Unità 17.10.13