«Al procedere delle riforme io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente. Impegno che porterò avanti finché sarò in grado di reggerlo e a quel fine». Queste parole – pronunciate ieri dal presidente della Repubblica – hanno ricordato la necessità che siano realizzate, fra l’altro, le riforme «politiche e istituzionali da tempo riconosciute necessarie», le quali includono la riforma elettorale e la revisione della seconda parte della Costituzione. Esse, ovviamente, sollevano un interrogativo: può il «tutore della Costituzione» pronunciarsi in favore delle riforme costituzionali?
A questa domanda è possibile rispondere non solo ricordando che la stessa Costituzione prevede la possibilità della sua riforma e che i Padri costituenti non aspiravano certo a produrre un te- sto immodificabile e sottratto al decorso del tempo. Ma occorre soprattutto muovere da una distinzione di fondo fra la Costituzione cui Giorgio Napolitano ha giurato fedeltà e di cui è il garante e le singole disposizioni costituzionali che la compongono.
Certo, ciascuna di queste è valida ed efficace sino a quando non venga modificata, ma il presidente non ha ovvia- mente prestato giuramento di fedeltà a ciascun meccanismo previsto dalla Costituzione del 1947 nel senso di impegnarsi a difenderlo da qualsiasi revisione. La Costituzione cui Napolitano ha prestato giuramento è l’insieme delle scelte fondamentali compiute nel 1947, le quali – come ha sostenuto Valerio Onida – hanno collocato l’Italia nell’alveo della tradizione costituzionale occidentale e conservano piena validità anche oggi. Esse non riguardano solo la prima parte della Costituzione (che talora si tende superficialmente a ritenere immodificabile, magari pensando che della seconda si possa invece disporre a piacimento), ma coinvolgono la scelta per una democrazia rappresentativa di tipo europeo, al tempo stesso funzionale e limitata. È proprio l’esigenza di garantire la funzionalità della Costituzione che ne impone oggi la riforma.
Per spiegare come conservatorismo e riformismo in materia costituzionale debbano andare assieme, si può forse ricorrere a una breve periodizzazione della storia costituzionale post-bellica. Dal 1948 all’inizio degli anni 90 la Costituzione è stata la base della Repubblica dei partiti che l’aveva prodotta: certo, dalla fine degli anni 70 erano iniziati i primi dibattiti sulle riforme, ma, a parte i progetti socialisti di una «grande ri- forma» e le velleità delle forze tradizionalmente anticostituzionali, il consenso sulla Costituzione rimaneva solido. La riforma era ipotizzata come qualcosa che doveva avvenire dentro lo spirito della legge fondamentale, come fisiolgicamente accade negli Stati contemporanei.
Tutto ciò è radicalmente cambiato dopo la crisi della Repubblica dei partiti. Il punto di partenza di questa seconda stagione – di vera e propria messa in discussione della Costituzione, non di singole disposizioni di essa – è stata la dichiarazione con cui, all’indomani della vittoria elettorale del 1994, Berlusconi, Fini e Bossi si schierarono in favore di una Seconda Repubblica, caratteriz- zata dal binomio fra presidenzialismo e federalismo. Si è così aperta una battaglia sull’essenza stessa della Costituzione del 1947, che andava ben al di là del- la distinzione fra prima e seconda parte. È allora iniziata la lotta a difesa della Costituzione inaugurata da Giuseppe Dossetti, che condusse su questo tema la sua ultima battaglia politica. Questa stagione ha attraversato gli anni 90 e buona parte del decennio seguente ed è culminata nella riforma approvata in solitudine dal centrodestra nel 2005. Ma tale progetto – che aveva il significato di una nuova Costituzione dei vincitori, che avrebbe rovesciato il senso della decisione costituente del 1947 – venne sconfitto nel referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006.
Da allora, anche se ciò non è parso subito chiaro, si è aperta una nuova fase, che ha riportato il dibattito sulle riforme all’interno della Costituzione. Non è un caso che il centrodestra non abbia più tentato una riforma unilaterale e che si siano delineati, negli scorsi anni, vari tentativi di aggiornamento della Costituzione, concordati dai due principali schieramenti politici: il più importante di essi è stato la bozza Violante della XV legislatura, nella quale si è delineato il minimo comune denomi- natore delle esigenze di aggiornamento (in materia di bicameralismo, forma di governo, sistema delle autonomie) su cui vi è un consenso relativamente ampio fra gli studiosi e – almeno a parole – nella classe politica.
Il pericoloso stallo istituzionale con cui si è aperta l’attuale legislatura ha ricordato ancora una volta che esiste una questione costituzionale aperta. Ma essa si colloca oltre la stagione che vedeva contrapposti conservatori e in- novatori radicali. Oggi essere conservatori dal punto di vista costituzionale significa essere favorevoli ad un incisivo programma di riforme che restituisca- no funzionalità alla Carta del 1947, anche intervenendo sulla legislazione ad essa immediatamente connessa (come il sistema elettorale). È per questo che il ruolo del custode della Costituzione è cambiato: abbiamo oggi un presidente eletto anche in relazione a un programma di riforme costituzionali e un governo che ha ottenuto su questo tema la fiducia parlamentare. Perché solo in quel modo è possibile «salvare la Costituzione», cioè perseguire l’obiettivo su cui si svolsero la battaglia di Dossetti e il referendum costituzionale del 2006.
L’Unità 16.10.13