Compirebbe settant’anni oggi, il «bambino senza nome». Era il più piccolo degli ebrei romani rastrellati nella retata del 16 ottobre del 1943. E morì senza neppure essere registrato. Che senso aveva, nell’ottica degli assassini nazisti, registrare un essere insignificante?
Sua mamma si chiamava Marcella Perugia, aveva 23 anni, era sposata con Cesare Di Veroli, che quel giorno maledetto scampò fortuitamente alla «grande razzia» e ne avrebbe portato il peso per tutta la vita. La ragazza, raccontano ne «Il futuro spezzato: i nazisti contro i bambini» Lidia Beccaria Rofi e Bruno Maida, avvertì le prime doglie la sera del 15 ottobre, poche ore prima della retata al ghetto. Era un venerdì.
«Arrestata e rinchiusa con gli altri deportati al Collegio militare di via della Lungara, fra il Tevere e i piedi del Gianicolo, i tedeschi consentono a convocare un medico italiano che, appena giunge, afferma che il parto si presenta difficile e bisogna ricoverare la giovane sposa in ospedale. Il permesso viene negato e nella notte tra sabato 16 e domenica 17, Marcella Perugia in Di Veroli, distesa su un giaciglio in un angolo del cortile, isolata alla vista degli altri prigionieri, dà alla luce un bimbo: il piccolo, considerato “nemico del Reich”, si trova immediatamente in stato di arresto. Accanto alla giovane madre ci sono gli altri suoi due figli, Giuditta di sei anni e Pacifico di cinque».
Saranno caricati insieme sul treno blindato che il 18 ottobre partirà dalla stazione Tiburtina per Auschwitz. Dove Marcella, Giuditta, Pacifico e il «bimbo senza nome» saranno uccisi il 23 ottobre. Insieme a gran parte dei bimbi razziati quel 16 ottobre di pioggia.
Al rastrellamento assistette inorridita, tra gli altri, Fulvia Ripa di Meana. Che avrebbe descritto in «Roma clandestina» i piccoli prigionieri sui camion caricati a Fontanella Borghese: «Ho letto nei loro occhi dilatati dal terrore, nei loro visetti pallidi di pena, nelle loro manine che si aggrappavano spasmodiche alla fiancata del camion, la paura folle che li invadeva, il terrore di quello che avevano visto e udito, l’ansia atroce dei loro cuoricini per quello che ancora li attendeva. Non piangevano neanche più quei bambini, lo spavento li aveva resi muti e aveva bruciato nei loro occhi le lacrime infantili».
Neanche uno di quei bimbi, su 288, tornò. Nell’Ossario digitale messo online da Liliana Picciotto c’è tra le foto quella di Fiorella Anticoli che aveva due anni e due fiocchi bianchi sui riccioli. Raccontano Lidia Beccaria Rofi e Bruno Maida: «Ad Auschwitz solo Fiorella si salva, passando la “selezione”. Un anno dopo, nel novembre 1944, viene evacuata da questo campo e trasferita a Bergen-Belsen. Sarà l’unica bambina ebrea italiana a sopravvivere a 18 mesi nei campi di sterminio. Alla liberazione di Belsen, il 26 aprile 1945, un soldato alleato scatta una fotografia di Fiorella in mezzo a un gruppo di ex deportati, e questa immagine fa il giro del mondo dei giornali: a Roma anche il padre, Marco Anticoli, la vede e comincia a sperare. Purtroppo Fiorella, sfinita dai patimenti e dalla denutrizione, non riesce ad abbracciarlo e spira il 31 maggio 1945». E c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di scrivere sui muri «onore al camerata Priebke»…
Il Corriere della Sera 16.10.13