Benvenuti nel mondo dei giovani senza identità, dove le storie di vita s’incrociano, dove innocenza e violenza si mescolano senza soluzione, dove il disagio è negli sguardi anche di chi ha l’aria sfrontata e l’atteggiamento da «bullo». Benvenuti nel mondo dei giovani oltre i limiti, bambini diventati adolescenti sulle note del Grandefratello, con i sogni presi in prestito da una pubblicità che trasforma la vita in un videogame e i sentimenti condensati sul display di un cellulare. Giovani cresciuti sotto il segno della globalizzazione, della comunicazione mobile, di internet e delle classi multietniche. Lo abbiamo immaginato come un mondo di speranze, lo abbiamo scoperto carico di incognite. Benvenuti nel mondo dove vittime e carnefici si nutrono dello stesso disagio, condividono le stesse paure e le stesse insicurezze. E insieme percorrono il miglio verde che separa la vita dalla sua dissolvenza. L’ultimo tratto di strada di una generazione sulla quale nessuno ha investito nulla. Non i politici, alla ricerca di consensi e voti; non i media, perché ci sono copie da vendere e obiettivi di audience da raggiungere; non gli uomini di economia e di azienda perché ci sono obiettivi di mercato da conservare; non gli intellettuali, troppo distratti dai primi tre. Benvenuti in un mondo nel quale ogni istante equivale all’altro, dove vivere il presente con la massima intensità consente di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che si perde di vista il senso della vita. Un’angoscia che si traduce nell’incapacità di elaborare un pensiero che consenta di uscire dal suo effetto collaterale più evidente: vivere la vita in uno stato di costante precarietà. Benvenuti nel mondo dei giovani alla deriva, ospiti di un mondo che non offre certezze, se non condizioni di vita peggiori dei loro padri. E che non avranno in dote nemmeno la democrazia che abbiamo conosciuto, figlia dei grandi movimenti e delle grandi sfide del 900, ma una post-democrazia dove una finanza senza regole distrugge quote di ricchezza reale e spazi di democrazia sostanziale. Benvenuti nel mondo dei giovani indifesi di fronte ai conflitti e agli inevitabili negoziati della vita. All’inizio li guida il desiderio di vivere svincolati da qualsiasi condizionamento. Poi emerge il bisogno di scoprirsi entità autonome e pensanti. Infine, la scoperta che la vita non può essere che un compromesso tra desideri e necessità. Vivono gli affanni di una precarizzazione che avvolge tutti i campi della vita, che li spinge ad appiattirsi in un eterno presente, dove ogni istante equivale all’altro e alimenta il timore che ogni progetto possa trasformarsi in un insuccesso, tanto più doloroso quanto più inizialmente coinvolgente. Inciampano fra detriti di sogni troppo precocemente infranti, rassegnati a un deficit di speranza che li porta per usare le parole di Sartre a scegliere tra non essere nulla o fingere quello che si è. L’insoddisfazione diventa ansia e altre volte paura, e li spinge a cercare nuovi esasperati riferimenti che permettano di esorcizzare la realtà che vivono come estranea e distante. Continuamente sollecitati a diventare predatori dell’ambiente che vivono, ma che gli è pericolosamente ostile, tendono a rompere gli argini, a spingersi verso un «oltre» che spesso significa esplorare nuovi territori e nuove forme di relazione che permettano loro di trovare un surrogato d’identità. Un’esistenza che non ha nulla da offrire se non l’illusione dell’apparire e la pubblicizzazione dell’intimità, che nettamente differiscono dal «cielo stellato» e dalla «legge morale» connesse alla consapevolezza di andare citando Paul Valéry «senza dei verso la divinità». Giovani in apnea per i quali la trasgressione è un limite continuamente da superare, il cui esito si deposita in un bagaglio di esperienze intorno alle quali tende a disporsi un’esistenza frammentata, dove il pensiero e l’azione non sono l’uno conseguenza dell’altro ma elementi sconnessi e scoordinati. Un’esistenza che esprime una socialità imperfetta e provvisoria. Anche se non sempre ne sono coscienti, i giovani stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che segnano la loro età, ma perché un ospite inquietante penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti. Un sentimento che sembra gettarli in un’impotenza assoluta di fronte al futuro. Per questo solo il presente ha senso. Un perdita che si traduce nell’incapacità di elaborare un pensiero che consenta di uscire dal suo effetto collaterale più evidente: vivere la vita in uno stato di costante incertezza. Le modificazioni psichiche che intervengono con il deterioramento delle relazioni sono vistose e per nulla equivoche. L’aggressività distruttiva che avvolge una quota consistente di giovani è una patologia psichica, ma anche sociale. Si alimenta dell’insicurezza, di frustrazioni precoci ed eccessive, di gravi limitazioni allo sviluppo. Un disagio che prende le mosse da una società che ha profondamente rinegoziato il proprio ruolo con il principale obiettivo di tenere basso il livello del conflitto interno, proponendo regole molto pratiche e molto vaghe, cessando quasi completamente di trasmettere i valori della storia e del sacro, di definire il giusto e l’ingiusto, ma solo l’opportuno o l’inopportuno. Una società che educa costantemente a una «socialità amorale», spogliata di ogni competenza relazionale e di quell’educazione alle emozioni che dovrebbe accompagnare l’adolescente alla vita adulta. Il venir meno di molti aspetti conflittuali nel rapporto tra adulti e adolescenti, più che un indice di coesione e vicinanza generazionale, è il riflesso di una società che evita il confronto, che non dispone più di un alfabeto emotivo da trasmettere, che predilige l’omologazione e l’impersonalizzazione. Una società che educai giovani a quel progressivo estraniamento dalla vita altrui che gli impedisce di riconoscere il prossimo, di comprendere le sue emozioni, le sue gioie e le sue sofferenze. Benvenuti nel mondo dei giovani che si nutrono dell’anima di altri giovani. Pensavamo fosse la generazione che aveva tutto, salvo scoprire che quel «tutto» ha avuto un prezzo molto elevato: la grande solitudine di un «io in fieri» e l’incapacità di saper ascoltare la vita che avanza, di guardarla negli occhi e di chiamarla per nome.
L’Unità 14.10.13