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“Moderni samurai”, di Pietro Greco

Lo possiamo leggere in due modi “Il bagnino e i samurai”, il libro che Daniela Minerva e Silvio Monfardini hanno appena pubblicato per l’Editore Codice. Entrambi pregnanti. Entrambi istruttivi. Il primo è quello della storia, triste e appassionata, dell’ennesima occasione perduta. Di un paese, l’Italia, che avrebbe potuto essere leader nel settore, strategico da ogni punto di vista, dell’industria dei farmaci antitumorali e che non ha saputo (voluto) esserlo. Ma lo possiamo anche leggere come un rapporto sulla duplice anomalia italiana: quella di una parte rilevante (di una parte prevalente) della classe industriale e politica che, incredibile a dirsi nell’«era della conoscenza», non crede nella ricerca scientifica e, invece, di un manipolo – sempre più piccolo, ma sempre più determinato – di moderni samurai, i ricercatori, che malgrado tutto tangono agganciato il vagone dell’Italia al treno dell’innovazione e, dunque, al futuro.

La storia riguarda la nascita dell’oncologia medica in Italia e nel mondo. Per dirla in maniera piuttosto rozza, l’oncologia medica è quella branca della medicina che cerca di curare il cancro avvalendosi di farmaci. Fu inaugurata di fatto, negli anni ’60 del secolo scorso, da Gianni Bonadonna e dai suoi samurai presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dove fu individuato e sperimenta- to uno dei primi farmaci antitumorali al mondo: l’adriamicina. La ricerca fu portata avanti con successo grazie a una stretta collaborazione tra il gruppo di Bonadonna e un’industria, la Farmitalia.

Fu allora che l’Italia ebbe l’occasione di entrare da protagonista nel mondo di «Big Pharma», il mondo delle grandi aziende farmacologiche del mondo. Il lavoro di Bonadonna era, infatti, del tutto pionieristico. E aveva un solo analogo, negli Stati Uniti. Oggi l’industria mondiale dei farmaci fattura oltre mille miliardi di dollari e una parte rilevantissima del mercato riguarda i farmaci antitumorali, che si sono rilevati un valido strumento nel contrasto al cancro, perché spesso consentono sia di allungare la vita degli ammalati, sia di migliorarne la qualità.

Purtroppo quell’industria, Farmitalia, fu venduta da quello che Minerva e Monfardini chiamano il bagnino, al secolo Carlo Sama, amministratore delegato di Montedison, a una società svedese all’inizio degli anni ’90. I duemila miliardi di lire ricavati servirono a coprire i debiti maturati dal grande gruppo industriale a causa di una gestione dissennata, che tanta parte ebbe in quel rapporto malsano con la politica noto come Tangentopoli.

La storia di Bonadonna e di Farmitalia non è originale. Ricalca, con una singolare analogia, quella della Divisione elettronica della Olivetti che, negli stessi anni ’60, aveva messo a punto il primo calcolatore a transistor del mondo e, subito dopo, il primo personal computer. La Divisione elettronica dell’Olivetti, diretta da Mario Tchou, dette all’Italia la possibilità di svolgere un ruolo da leader nel nascente mercato dell’informatica, proprio come Bonadonna e Farmitalia dettero all’Italia la possibilità di svolgere un ruolo da leader nel nascente mercato dei farmaci anti- tumorali. Ironia della sorte, la Divisione elettronica dell’Olivetti fu dichiarata un «cancro da estirpare» da Vittorio Valletta e svenduta a una società americana, proprio come Farmitalia fu svenduta alla società svedese.

L’insieme di queste storie ci dicono dell’incapacità della classe dirigente italiana, economica e politica, di cogliere i segni della modernità. Di comprendere che nell’era della conoscenza solo un modello di sviluppo industria- le fondato sulla scienza può assicurare al paese un futuro sostenibile.

La storia di Daniela Minerva e Silvio Monfardini denuncia, con parole forti ed efficaci, questa incapacità. È un’analisi che ha la forza di una proposta: per uscire dalla spirale di declino l’Italia ha una e una sola possibilità: rifondare il modello industriale, cambiare specializzazione produttiva, puntare su beni e servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto.

Ma il libro può essere letto anche con un altro paio di occhiali. Quello della comparazione tra due anomalie italiane, di segno opposto.

Da un lato la classe dirigente economica e politica che, salvo eccezioni, da mezzo secolo almeno non comprende la modernità e rifiuta di entrare nell’era della conoscenza. È un’anomalia che non ha pari in Europa e nel mondo. E infatti l’Italia, negli ultimi venti anni, è dopo Haiti il paese che ha visto la sua economia crescere di meno al mondo.

Dall’altra la comunità scientifica italiana, piccola ma brava. Che, come facevano Gianni Bonadonna e i suoi samurai, si relaziona e si confronta ogni giorno con il resto del mondo ed è capace di offrire con buona continuità occasioni per innovare. Si tratta di un’autentica anomalia: nessun’altra comunità scientifica al mondo ottiene così tanto essendo tratta- ta così male. Malgrado tutto, ancora oggi – è questo il messaggio di Minerva e Monfardini – la comunità scientifica italiana tiene agganciato il paese al treno della modernità. Approfittiamone, finché siamo in tempo.

L’Unità 14.10.13

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