La prima indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) dell’Ocse sulle competenze dei cittadini di 24 paesi in età compresa tra 16 e 65 anni conferma il grave deficit formativo italiano. Lo studio ha misurato le competenze linguistiche e matematiche della popolazione adulta e ha messo in evidenza per l’Italia una pesante situazione di analfabetismo funzionale, cioè l’incapacità di utilizzare le abilità di lettura, scrittura e calcolo in modo adeguato per lavorare e vivere nella società contemporanea. L’Italia, infatti, si colloca all’ultimo posto nelle competenze linguistiche e al penultimo in quelle matematiche. I risultati non dovrebbero stupire: il 45% degli italiani tra 25 e 64 anni arriva al massimo alla licenza media contro una media OCSE del 27%, mentre i laureati tra 55 e 64 anni sono il 10% contro il 22% OCSE e quelli tra 25 e 34 anni sono il 20% contro il 37% OCSE. Inoltre gli adulti che accedono alla formazione sono solo il 6% e l’obiettivo europeo di averne almeno il 15% entro il 2020 appare molto lontano. Stupisce quindi lo stupore del Ministro Giovannini, già Presidente dell’Istat, di fronte a questi pessimi risultati italiani, stupisce anche che il Ministro si limiti a denunciare i rischi di inoccupabilità dell’ampia fascia della popolazione con competenze insufficienti. Sarebbe ovviamente più opportuno che il Ministro si impegnasse a prendere provvedimenti adeguati, a partire dalla rapida attuazione delle legge 92/2012 sulla costruzione del sistema nazionale per l’apprendimento permanente. L’iniziativa a proposito del Ministero del Lavoro brilla invece per inerzia. Peggio ancora ha fatto Andrea Ichino in un articolo con cui attribuisce la responsabilità dei risultati negativi interamente al malfunzionamento della scuola nella quale, secondo il professore, non si dovrebbe investire di più perché si spende già troppo, arrivando perfino a rimproverare il governo per i timidi 400 milioni racimolati per finanziare il decreto scuola. Al di là dei dati riportati nell’articolo sulla spesa italiana per l’istruzione, tutti comunque al di sotto di sotto della media OCSE, compresi quelli relativi alla spesa per alunno (per i quali, per altro, non si ricorda l’influenza di specificità italiane come gli insegnanti di sostegno ai disabili, la struttura geomorfologica del territorio, …), Ichino non tiene conto che l’indagine riguarda le competenze della popolazione adulta che sono acquisite anche e soprattutto in contesti non formali e informali e che deperiscono nel corso del tempo se non sono continuamente esercitate e aggiornate. Questo spiega, ad esempio, perché, come rileva l’indagine, i laureati italiani hanno livelli di competenza pari ai diplomati di altri paesi sviluppati: nel corso della vita attiva hanno meno opportunità di mantenere le competenze acquisite con la formazione iniziale e di acquisirne nuove. Per comprendere la situazione disastrosa in cui versa il Paese, allora, non è sufficiente prendere in considerazione i limiti della formazione iniziale (dispersione scolastica e universitaria, livelli di apprendimento spesso al di sotto delle medie internazionali). Occorre individuare anche l’altra ragione del basso livello di competenza italiano: il numero ridotto di adulti (6% nella fascia di età 25-64anni) che partecipano alle attività di formazione, a partire dai posti di lavoro. Secondo l’ultimo rapporto ISFOL sulla formazione continua le imprese che nel 2011 hanno effettuato, internamente o esternamente, corsi di formazione sono il 35%, circa la metà della media europea e la situazione era la stessa anche prima della crisi. Complessivamente il sistema produttivo italiano è povero di conoscenza, investe poco in ricerca, fa poca formazione, assume pochi lavoratori qualificati e ha una struttura occupazionale arretrata, composta ancora dal 36% di basse qualifiche e solo dal 17% di alte qualifiche contro una media europea rispettivamente del 22% e del 29%. Non serve quindi “accusare” i cittadini di non essere occupabili e nemmeno ha senso ridurre il problema all’insufficiente efficacia di scuola e università, occorre invece intervenire per invertire la spirale negativa che sta facendo declinare il paese, fatta, per un verso, da un sistema produttivo poco innovativo che domanda e forma poche competenze, e per l’altro, da uno skill gap della popolazione attiva che frena lo sviluppo della produttività e dell’innovazione. Il Piano del Lavoro della CGIL indica un percorso per uscire da questo circolo vizioso, rivendica una politica economica basata sulla valorizzazione della qualità del lavoro e il superamento dei ritardi nell’innovazione connessa a investimenti e riforme finalizzati a innalzare i livelli di istruzione dei cittadini e a realizzare, finalmente anche nel nostro Paese, il diritto all’apprendimento permanente. Se sono urgenti immediati sgravi fiscali diretti ai lavoratori e ai pensionati per riattivare la domanda e contrastare la recessione, è altrettanto necessario che gli interventi a favore delle imprese non siano generiche riduzioni del cuneo fiscale ma incentivi agli investimenti, all’innovazione, all’assunzione di giovani qualificati. Se il recente decreto scuola ha individuato corrette priorità di intervento per avviare la ricostruzione inclusiva dei sistemi della conoscenza, i circa 400 milioni stanziati sono davvero una cifra inadeguata e che rende ancora più evidente il bisogno di una redistribuzione che trasferisca risorse dalle rendite agli investimenti nella conoscenza. Infine, in modo davvero sorprendente, quasi nessun commento all’indagine ha indicato lo strumento più immediato per fronteggiare la pesante situazione di analfabetismo funzionale: potenziare gli interventi di formazione degli adulti attraverso la costruzione di un sistema nazionale dell’apprendimento permanente. La legge 92/2012 e la normativa applicativa già approvata permettono di cogliere oggi questa opportunità, ma il governo sta perdendo tempo. La CGIL da tempo (vedi legge di iniziativa popolare sul diritto all’apprendimento permanente) ha messo al centro della propria iniziativa questo tema e ora, insieme alle altre organizzazioni sindacali, ha chiesto l’apertura immediata di un tavolo di confronto. Occorre sperimentare da subito, insieme ai progetti assistiti dei nuovi Centri per l’istruzione degli adulti, la rete territoriale dei servizi per l’apprendimento permanente al fine di utilizzare da subito, in modo integrato e programmato, le risorse, a volte anche significative, provenienti dai finanziamenti statali, regionali europei e dai Fondi Interprofessionali. Si tratta di cominciare a spendere meglio le risorse, oggi disperse in mille rivoli spesso improduttivi, per rispondere alle ampie e urgenti esigenze poste dalla crisi (aggiornamenti, riconversioni, sostegno alle transizioni lavorative,…) e dalla situazione sociale (NEET, analfabetismo funzionale, immigrati, invecchiamento attivo,…). Allo stesso modo è già oggi possibile (le norme sono già tutte approvate) dare un impulso decisivo alla costruzione di un sistema nazionale pubblico di certificazione delle competenze che garantisca ai cittadini e ai lavoratori il riconoscimento delle competenze comunque acquisite, anche attraverso le esperienze di lavoro e di vita. Alcune regioni hanno già meritoriamente iniziato ma la spendibilita’ delle competenze da loro validate è riferita solo al territorio regionale. Manca ancora un quadro unitario nazionale di riferimento (repertorio nazionale delle qualificazioni), i ministeri competenti (lavoro e istruzione) e la conferenza delle regioni, in presenza di una crisi così drammatica, dovrebbero lavorare spediti, invece si procede a rilento. Non mancano, purtroppo, resistenze da parte delle organizzazioni di rappresentanza dei datori di lavoro, timorose degli effetti, anche retributivi, di valorizzazione del lavoro derivanti dalla certificazione delle competenze. Una resistenza miope, non presente nei paesi europei e nelle imprese che crescono e sono competitive puntando sull’innovazione e la qualità del lavoro. Sviluppo e riconoscimento delle competenze delle persone che lavorano rappresentano, infatti, nell’economia della conoscenza un interesse comune di imprenditori e lavoratori e uno dei principali fattori per un nuovo modello di sviluppo.
da scuolaoggi.org