Il congresso del Pd è cominciato. Deve dare all’Italia un progetto di cambiamento e legittimare una nuova classe dirigente. Si tratta di una responsabilità nazionale, non inferiore a quella che il Pd ha assunto mettendosi alla guida del governo di «necessità». Senza questa prospettiva, senza visione del futuro, l’orizzonte stesso del governo si accorcerebbe. Le larghe intese sono la febbre, non certo la normalità del sistema democratico. Oggi servono per porre le basi – istituzionali e sociali – del cambiamento di domani: in un sistema al collasso non possiamo permetterci che anche le prossime elezioni siano nulle.
L’obiettivo di vincere le elezioni – obiettivo da porre fin d’ora – è dunque un proposito sano. Che di per sé non si contrappone alla battaglia necessaria nel governo Letta affinché si raggiungano risultati in termini di ripresa economica, di equità sociale, di riforme elettorali e istituzionali. E proporsi di vincere le elezioni per il Pd – che non le ha mai vinte, ed è erede di un centrosinistra che nell’ultimo ventennio non ha mai vinto davvero neppure quando ha conquistato Palazzo Chigi – vuol dire anche analizzare criticamente le ragioni degli insuccessi passati. Non si può fare un congresso saltando questo difficile esame critico.
Ma l’obiettivo della vittoria elettorale non può neanche limitare il confronto soltanto alla leadership, alla sua forza mediatica e alla capacità di consenso a breve. Vincere non è un verbo che riguarda esclusivamente le elezioni e il governo del dopo. Vin- cere è una questione che riguarda anche il partito. Si può pensare a un cambiamento del Paese tenendo il partito – cioè quel pezzo di società civile che è disposta a organizzare la domanda politica, e a mediarla, e ad ampliarla – nel magazzino delle cose inutili? Si può pensare a un governo di cambiamento senza un partito – come ha scritto Fabrizio Barca – che sappia portare le risorse civiche e le conoscenze diffuse ad una responsabilità pubblica? Si può pensare ad un risveglio della fiducia se i cittadini continueranno ad essere esclusi da una partecipazione attiva, e usati solo come platee plaudenti oppure come rancorosi fustigatori del web?
Non ci sarà vera vittoria se il cambiamento non riguarderà l’idea stessa di partito. Non ci sarà vera vittoria se tutto l’impegno sarà concentrato nei comitati e nella comunicazione elettorale. Questo è un insegnamento che dovrebbe essere ormai patrimonio comune, dopo il drammatico fallimento di Berlusconi.
Il dilemma non è tra partito pesante e partito leggero. Non che il tema non sia interessante, ma le strutture organizzative di- pendono molto dai cicli storici, dalle risorse disponibili, dalle potenzialità e dalle sofferenze della società concreta. Il punto cruciale oggi è il ruolo del partito, il suo senso nel progetto di innovazione che la sinistra propone all’Italia (e all’Europa). Il partito – al di là della densità delle proprie strutture – è funzione essenziale della società che elabora la politica. Non è il derivato di istituzioni in crisi, né lo strumento per occupare la società, o soffocare le altre autonomie. È il corpo intermedio più complesso, che porta fino in Parlamento gli interessi sociali in conflitto e che organizza la rappresentanza.
Il partito deve restare un luogo autonomo dalle istituzioni e dal governo stesso. Questo è un tema che il congresso del Pd deve affrontare anche perché è un tema controverso, finora discusso con superficialità. Non basta trovare un compromesso sul fatto che il segretario può essere il candidato premier, ma può anche non esserlo. O sul fatto che il segretario è candidato, ma può avere un altro competitore interno. Sono queste ovvietà, che sarebbe persino utile tenere fuori dallo statuto. Meno ovvio è dire che il partito non è funzione esclusiva del governo o dell’opposizione al governo.
Il partito deve essere capace di parlare del futuro, di aprire un confronto su un do- mani che vada oltre le scarse risorse del pre- sente. Senza l’autonomia del partito, il programma del governo sarebbe limitato inesorabilmente agli interventi parziali e alle sempre insufficienti disponibilità di bilancio. E non basta la comunicazione o la demagogia a colmare lo scarto tra le domande dei cittadini e le tristi contingenze. Senza la capacità di un partito di allargare i propri orizzonti oltre l’oggi della politica, si rischia di consegnare il futuro al radicalismo anti-sistema. È ciò che avviene già oggi: ed è una delle ragioni degli insuccessi della sinistra.
L’Italia per salvarsi ha bisogno di un Pd all’altezza del proprio compito. E il compito del Pd non è quello di appiattirsi sul governo in carica, né su quello auspicabile di domani. La sinistra deve tornare a progettare il futuro insieme ai giovani, a chi non fa parte dal suo blocco sociale di riferimento, a chi pone istanze e valori più radicali, facendo in modo che questo cantiere aperto non sia vissuto come antagonista al buon governo possibile. Sia chiaro, la concretezza dell’azione politica è condizione del buon governo. La mediazione politica, la capacità di compromesso sono virtù. Ma se il governo possibile è costretto in binari strettissimi di compatibilità, la sinistra non può permettersi una divaricazione tra i valori più forti da un lato e le politiche dei piccoli passi dall’altro. Così la sinistra viene lacerata e ridotta all’impotenza. Senza partiti che funzionano c’è l’impotenza. O il Pd riesce a spezzare la tenaglia o sarà schiacciato.
L’Unità 13.10.13