I grandi maestri latini ci hanno insegnato a «non infierire sui morti» e noi non lo faremo neppure su Erich Priebke spentosi centenario nel suo letto senz’ombra di pentimento per il ruolo criminale avuto nel massacro delle Fosse Ardeatine. Nemmeno un sussulto critico sugli orrori del nazismo. La morale laica e quella cristiana ci dettano il rispetto per ogni persona umana. Anche per quelle che, come Priebke, si sono comportate con una ferocia che ha rari riscontri nella storia, partecipando in modo diretto a radunare centinaia di ostaggi e a sopprimerli barbaramente.
Il rispetto umano, certo. Ma non pietà, perché, come dice la canzone partigiana scritta dal comandante «Nuto» (Nuto Revelli): «Tedeschi e fascisti, fuori d’Italia! / Gridiamo a tutta forza. Pietà l’è morta!». Non pietà, né funerali pubblici (giusto il no dello stesso Vicariato) che possano consentire anche la minima manifestazione apologetica nella Roma della eroica resistenza di Porta San Paolo, della razzia del ghetto (e il 16 ottobre è qui), delle tante deportazioni senza ritorno, del carcere di via Tasso, nella Roma che non vuole, che non deve dimenticare le lotte di popolo contro la dittatura nazista e quella fascista sua complice dopo la costituzione sciagurata della Repubblica Sociale Italiana. Trasformiamo invece la scomparsa del sanguinario ufficiale delle Ss in un momento di ricordo diffuso, consapevole di ciò che ha rappresentato di nobile per l’Italia il biennio 1943-45, il riscatto, anzitutto morale, dalla guerra fascista, la gestazione della democrazia, della Repubblica, di una Costituzione fra le più solide e antiveggenti del mondo. Nel 1985, si pose un «caso» Walter Reder, il boia della strage di Marzabotto. Lo si voleva libero perché gravemente malato. Il dibattito fu molto acceso. Riccardo Lombardi, antifascista fra i più rigorosi, mi disse: «Se è malato, tanto vale liberarlo. Se non si è pentito sin qui, non si pentirà mai». In realtà Reder aveva chiesto perdono anni prima ai superstiti. Ebbene, quando fu libero, affermò che nulla aveva da rimproverarsi e che la richiesta di perdono era stata una iniziativa del suo avvocato. Non diversamente dal «suo» generale Albert Kesselring, comandante in capo delle truppe tedesche in Italia, il quale, liberato per le solite gravi ragioni di salute, sostenne con protervia che gli italiani avrebbero dovuto «fargli un monumento» per il comportamento tenuto. Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione, gli rispose con un’ode famosa ora murata sul Municipio di Cuneo data alle fiamme dai nazifascisti: quel monumento l’avrai, camerata Kesselring, «col silenzio dei torturati / più duro d’ogni macigno / soltanto con la roccia di questo patto / giurato fra uomini liberi (…) morti e vivi collo stesso impegno / popolo serrato intorno al monumento / che si chiama / ora e sempre / Resistenza». Quella era la stoffa morale dei criminali nazisti. Questa la tempra dell’antifascismo, dei costituenti, di quanti ricostruirono l’Italia dalle macerie e ai quali ci siamo rifatti in questi anni e in queste ore nelle quali ci auguriamo che stia finendo un ventennio vergognoso per il nostro Paese. Simboleggiato da un uomo che meno di un anno fa ha ancora affermato (salvo smentirsi poco dopo) che «Mussolini aveva fatto anche cose buone». Il contrario di ciò che dobbiamo dire oggi, domani, sempre. Come Priebke, del tutto involontariamente, ci ha insegnato.
L’Unità 13.10.13