Il primo premio Nobel per la Pace venne assegnato, senza troppe cerimonie, nel 1901, dopo un incontro del Parlamento norvegese durato pochi minuti. I premiati, Jean Henry Dunant e Frederic Passy non erano presenti, niente discorsi, strette di mano di prammatica e via. Ma il mito era nato, preservato fino a noi con la vittoria di ieri per l’Opac, Organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche. Allora vinsero due uomini, lo svizzero Dunant, padre della Croce Rossa e della Convenzione di Ginevra, il francese Passy, fondatore di una Società per la Pace, antenata delle Nazioni Unite. Ieri ha vinto un ufficio. Cambia molto?
Sì, cambia molto. Perché l’Opac, fondata nel 1997 e diretta dall’ambasciatore turco Ahmet Üzümcü (lo avevate mai sentito fino a ieri?), è in realtà un minuscolo ufficio, con 41 delegati internazionali e uno staff modesto (nessuno rispondeva al telefono alla giuria del Nobel, «eravamo in riunione» ha risposto un imbarazzato impiegato). Non sono i premiati a condurre le ispezioni sul campo a caccia di armi chimiche proibite, non saranno loro a setacciare i campi della morte siriani trovando le prove dei crimini di guerra del regime di Assad in Siria. Per le ispezioni l’Opac si affida a tecnici professionisti, reclutati di solito dalle multinazionali della chimica o tra ex militari.
Dunant e Passy vinsero in persona, non con le sigle che avevano lanciato. Si accenderanno ora ammirate le coscienze dei ragazzi, come quando i premi andarono a Martin Luther King, Nelson Mandela, Madre Teresa, Aung San Suu Kyi, Albert Schweitzer, Tutu, Walesa, Sacharov? Si accenderanno irate le polemiche degli adulti come quando il premio per la Pace laureò Henry Kissinger, Arafat, Rabin, Peres, Sadat, Begin, De Klerk, venendo rifiutato dal leader vietnamita Le Duc To? No. L’anno scorso vinse l’Unione europea, difficile che tanti si siano scaldati, prima aveva vinto Barack Obama che di pace ha molto parlato, colpendo poi con i droni in Pakistan più di Bush. E i premi andati a organizzazioni pur benemerite, il Friends Service Council dei Quaccheri nel 1947, l’International Labour Organization del 1969, gli International Physicians for the Prevention of Nuclear War 1985, le Pugwash Conferences on Science and World Affairs 1995, che traccia lasciano se non il bollino nel sito web?
Il Nobel per la Pace è, come tutti gli altri, un premio politico. Grandi scrittori come Borges, Simenon, Celine, Joyce, Fitzgerald, Ionesco, non hanno vinto perché le loro idee o lo stile personale non si confacevano all’idea di «letterato» cara alla giuria. Dal gelido punto di vista storico è difficile non vedere come Nixon e Mao, aprendo le relazioni tra Usa e Cina, abbiano dato pace al XX secolo, ma i giurati non avrebbero mai premiato il Presidente che bombardava la Cambogia prima del Watergate e il dittatore che ha fatto strage di contadini cinesi con la carestia. Arafat, De Klerk, Kissinger e Begin sì.
Che fare allora quando manca un vero profeta disarmato, come il pacifista tedesco Carl von Ossietzky, che nel 1936 ottenne il Nobel detenuto nelle carceri naziste, dove morirà due anni dopo, e Hitler si infuriò per la scelta al punto da proibire ai tedeschi di accettare nuovi premi? Meglio andare sui burocrati, Kofi Annan, el Baradei, perfino Sean Mac Bride, autore di un incongruo rapporto per nazionalizzare il giornalismo.
Nel 2013, in verità, una profetessa disarmata c’era, la sedicenne pakistana Malala Yousafzai, condannata a morte e ferita dai talebani perché crede al diritto – sancito dall’Onu – di ogni bambina a scuola ed educazione. È stata una settimana formidabile per le donne, l’economista Yellen a dirigere la Banca Centrale Usa, la Alice Munro Nobel per la letteratura, Malala poteva completare il «triplete» femminile. Ma il presidente del comitato Nobel, il compassato Thorbjørn Jagland, pur chiarendo «che certo, anche un bambino può vincere», ha deciso altrimenti.
Chi difende il Nobel dirà che la Siria, con 115.000 morti e l’uso dei gas, è emergenza: vero, ma lo era già un anno fa, quando vinse l’Europa, non proprio sollecita nell’occuparsi della mattanza di Damasco. E possiamo dire almeno che il premio ai gentiluomini dell’Opac è, come quello assegnato a Obama, un po’ prematuro, visto che stanno appena iniziando ad appaltare le ispezioni in Siria e i risultati sono, per ora, esili.
In realtà a decidere contro il Nobel a Malala è stata un’occhiuta e abile campagna internazionale che ha unito terzomondisti occidentali a nazionalisti e fondamentalisti pakistani. In Pakistan si dice spesso «Malala o Salala?”», ricordando il villaggio al confine con l’Afghanistan dove le truppe Nato hanno ucciso 25 soldati pakistani. L’editorialista pakistano Huma Yusuf ha addirittura spiegato, in un fondo sul New York Times ripreso dal Financial Times, perché gli intellettuali del suo paese considerano «ipocrita» il Nobel a Malala: tanti l’accusano di avere «finto l’attentato per diventare famosa», altri di essere (poteva mancare?) «agente della Cia».
La campagna contro Malala, a tratti violenta, a tratti untuosa e snob, ha vinto. Il Nobel scandinavo non deve suscitare polemiche ineleganti, tanto meno se mascherate da «difesa del Terzo Mondo». No: il premio Nobel per la pace deve essere celebrato online, in elzeviri sussiegosi e un po’ tromboni, e poi festeggiato in decine di party, tra un bicchiere di Chardonnay gelato e una fettina di brie.
Congratulazioni dunque all’ufficio dell’Opac e buon lavoro, – rimboccatevi le maniche! – da avviare in Siria. Vedremo il loro bilancio nel 2014, quando impareremo la nuova sigla sconosciuta rinvenuta dal Nobel. Quanto a Malala che aspetti, studi se può senza farsi ammazzare (in questi giorni i Tehreek-e-Taliban pakistani hanno confermato la sua condanna a morte) e, finiti i compiti, porti le prove di non essere spia della Cia.
La Stampa 12.10.13