Siamo gli ultimi. Dopo il Giappone e gli Stati Uniti, dopo l’Australia e la Germania, e anche dopo l’Estonia, Cipro, l’Irlanda e i ventitré paesi che fanno parte dell’Ocse, ossia del mondo sviluppato e democratico. L’Italia è all’ultimo posto per competenze alfabetiche e al penultimo per quelle matematiche, in sostanza per quelle facoltà ritenute essenziali per la crescita individuale, l’inclusione sociale e un corretto esercizio di cittadinanza. I primi dati dell’indagine Piaac
(Programme for the International Sessment of Adult Competencies)—
svolta tra il 2011 e il 2012 presso la popolazione tra i 16 e i 65 anni, su iniziativa dell’Ocse e realizzata in Italia dall’Isfol — confermano un primato drammatico. Soltanto una piccola parte della popolazione italiana — meno del 30 per cento — possiede quei livelli di conoscenza che sono considerati «il minimo per vivere e lavorare nel XXI secolo». Con un netto divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno. E un deficit crescente — tra il nostro e gli altri paesi — man mano che avanziamo nei livelli di istruzione. Per le università italiane, una dèbâcle.
È un quadro assai preoccupante, che lascia poco spazio a illusioni di progresso. La fascia di popolazione che segna il passo è proprio quella tra i 16 e i 29 anni, ossia le generazioni su cui si costruisce il futuro di una comunità nazionale. Mossa da ammirevole ottimismo, l’Isfol lo presenta come un fenomeno positivo: ossia la riduzione della forbice tra giovani e vecchi. Ma il miglioramento riguarda esclusivamente i “nuovi anziani”, dai 55 ai 65 anni, che grazie alla scuola dell’obbligo hanno visto crescere i livelli di alfabetizzazione, mentre le fasce più giovani non mostrano alcuna progressione, penalizzate dalle fughe da scuola e università. Il più sconfortante è il capitolo dei Neet, ossia dei giovani che non studiano né lavorano: la media delle loro competenze è agli ultimi gradini nella comparazione nazionale. Oltre che in quella internazionale, rispetto ai coetanei altrettanto sfortunati.
La nuova ricerca mostra la centralità dell’occupazione, anche ai fini delle competenze alfabetiche e matematiche acquisite. Non sono dunque ammesse speranze in un paese che vede restringersi drammaticamente il mercato. Qui però interviene l’unica novità positiva del rapporto Isfol-Piaac che riguarda le donne: anche se disoccupate, riescono a mantenere “i livelli di performances” precedentemente raggiunti. «Un
uomo privato del lavoro perde anche la propria identità», dice Gabriella Di Francesco, curatrice dell’indagine. «Le donne invece fanno più lavori insieme. E se perdono l’occupazione, continuano a impegnarsi nell’organizzazione della casa, di figli e nipoti». I neuroni, in sostanza, rimangono in esercizio.
In un paese ancora segnato dal peso sociale della famiglia — il background è tuttora la bussola che governa esiti scolastici e carriere — la riscossa femminile è il solo fattore di mobilità. La nuova
mappatura mostra una riduzione del divario tra uomini e donne sia nella
numeracy (competenza matematica) che nella literacy (la competenza alfabetica in cui addirittura avviene il sorpasso). Ma l’elemento ancora più interessante è che le donne avanzano proprio nelle fasce d’età che abbiamo visto più esposte, dai 16 ai 29 anni. «Le giovani italiane riscattano le più anziane, ancora segnate da antiche disparità», rileva Vittoria Gallina, studiosa dell’analfabetismo e consulente del rapporto. Un capitale che però rimane inutilizzato. «Uno spreco di talenti», lo definiscono i ministri Carrozza e Giovannini, che si impegnano a invertire la rotta.
L’Italia vanta un altro malinconico primato nell’alta percentuale di lavoratori sotto qualificati, mentre eccelle nel problem solving,
almeno stando all’autovalutazione delle persone consultate. Ignari e illetterati, ma con forte senso dell’improvvisazione. Forse anche nel rispondere alle domande dell’Isfol, prove svolte su carta da quasi metà del campione. Solo il 58 per cento s’è mostrato in grado di fare i test sul computer. Un risultato, anche questo, non da medaglia.
La Repubblica 09.10.13