È malleabile, resistente, sottile. Soprattutto, è adattabile. «Dici che è per questo che l’ho scelto? Perché il grafene somiglia a me?». Con un largo sorriso Rachid spiega la sua tesi di laurea in ingegneria civile. Titolo: «Il grafene e le sue potenzialità». Ognuno ha potenzialità insospettate. «Il grafene può adattarsi a molte situazioni: è resistente, è un foglio sottilissimo che puoi adagiare su ogni superficie. Resiste per questo, perché non si impone ma accetta la realtà». Come te? «Come me, che vendo i fazzoletti di carta per pagarmi gli studi. E stringo i denti da quattordici anni, da quando sono arrivato su una vecchia golf dal Marocco». Ora che ha in tasca la laurea triennale, gli rimane un sogno: «Abbandonare presto la vetrina, vivere d’altro». La vetrina è quella cascata di ninnoli che ricopre la sua spalla sinistra e che lui cerca di vendere ai passanti. Quanto rende la vetrina? «Se riesci a piazzare qualche foulard e non solo i fazzoletti di carta e gli accendini, puoi arrivare a 30 euro al giorno. Ma spesso non ce la fai a pagare la bolletta della luce». È questa la vita quotidiana di Rachid Khadiri Abdelmoula, 26 anni da Kourigba, Marocco. Divisa tra l’aula magna del Politecnico e i portici del centro di Torino. Rachid, ti fanno le foto? Che cosa hai combinato? ». Pomeriggio affollato nel cortile del Politecnico. Tutti conoscono la storia del marocchino che si è laureato vendendo accendini e fazzoletti, e scherzano da vecchi amici. Ma questo è il lieto fine: «All’inizio erano scioccati. Capitava per caso, sotto i portici del centro. Io li osservavo. I più non dicevano nulla. Succedeva quasi sempre così. Li vedevo arrivare da lontano. Erano i miei compagni di corso, ragazzi come me. Li avevo visti al mattino a lezione, non potevano scambiarmi per un altro. E infatti mi fissavano. Si avvicinavano, si avvicinavano. Poi, di colpo, si allontanavano frettolosi, senza dire una parola». Quanto tempo è andato avanti questo gioco? «Poco, per fortuna. Perché al mattino, nelle aule del Politecnico, qualcuno ha cominciato a chiedere: “Ma noi ci siamo visti ieri pomeriggio sotto i portici di via Po?”». Così, poco per volta, tutti hanno saputo. Ed è stato un bene: «Sì perché molti sono diventati amici veri. Se sono arrivato alla laurea triennale devo ringraziare anche loro, i tanti che mi hanno aiutato nei momenti di difficoltà. Se c’è una cosa bella dell’Italia è questa disponibilità che ho trovato in molte persone».
Happy end ma storia difficile. «Vedi qui sotto il sopracciglio? È il taglio di un pugno. Era un gruppo di ragazzi. Avranno avuto sedici anni. In via Roma, una notte. Avevo la mia mercanzia. Mi sono volati addosso. Mi insultavano. Un branco di razzisti. Mi hanno picchiato. Sarebbe andata peggio se non fossero intervenuti dei passanti. Vedi, anche qui, in fondo c’è del buono. Io ho sempre fatto così. Quando capita qualcosa di brutto devi cercare l’aspetto positivo, fare un reset e ricominciare da capo. È la regola del grafene: adattarsi per diventare più resistenti ».
Adattarsi. A Kourigba non era possibile. La famiglia di Rachid,
padre, madre e sette fratelli, viveva di agricoltura e allevamento: «Ma la terra era poca e noi eravamo tanti. I miei due fratelli più grandi sono venuti in Italia per primi. Said è andato ad Alba, in provincia di Cuneo. Per questo ha dovuto imparare un po’ di dialetto piemontese, perché nei paesi se non parli il dialetto non sei nessuno. A me non è capitato, sono arrivato direttamente in città. Già è stato difficile, il primo mese, capire l’italiano in prima media».
Agosto 1999, la vecchia Golf dei fratelli di Rachid attraversa lo stretto di Gibilterra, corre lungo le autostrade del sud della Spagna
affollate di turisti, raggiunge il golfo di Marsiglia e supera la frontiera di Ventimiglia prima di puntare su Torino. «Ogni estate i miei fratelli tornavano dall’Italia e raccontavano meraviglie. Dicevano che c’erano un sacco di possibilità di lavoro. Io ero affascinato. Un giorno ho detto a mia madre: “Qui a scuola non ci vado più. Voglio seguirli in Italia” ». E la realtà si è dimostrata all’altezza delle aspettative? «Quando siamo arrivati ad agosto non mi rendevo conto di quanto freddo possa esserci qui. Certo, i miei fratelli avevano un po’ esagerato. È umano no? Se no come spiegavano che erano andati via dal paese?».
Rachid è una delle centinaia di stranieri che frequentano uno dei politecnici più ambiti d’Italia. Arrivano da tutto il mondo ma pochi vivono di espedienti come lui. «Il conto è presto fatto. Se calcoli una media di 20 euro al giorno riesci a portare a casa 600 euro in un mese. Una parte finisce nella mia quota di affitto: vivo con i fratelli. Un’altra va in vitto, libri e bollette ». E spesso non basta: «Lo so bene. Solo qualche mese fa abbiamo rischiato che ci togliessero il gas per qualche bolletta non pagata. Ma in questi casi è sempre arrivato qualcuno che ci ha tolto dai guai. Poi io sono riuscito a ottenere due borse di studio. Questo ultimamente non capita più. I soldi mancano anche all’Università e i criteri sono diventati più rigidi ».
La crisi colpisce anche persone intraprendenti come Rachid. Li colpisce due volte. La prima con la stretta sulle borse di studio e sulle tasse universitarie. «E la seconda con il crollo delle vendite di fazzoletti e foulard. Ci sono dei giorni che trascorri ore sotto i por-
tici e non metti in tasca nemmeno dieci euro. Che ci sia la crisi non te ne accorgi solo dai soldi. Te ne accorgi dalla rabbia della gente. Da come in tanti ti mandano a quel paese quando ti avvicini. Ti urlano dietro, se la prendono con te».
Assorbire per tutto il pomeriggio il veleno che ti sputa in faccia l’Italia incazzata e tornare a casa la sera a studiare geometria e analisi 1: un vero e proprio esercizio zen. «Il primo anno al Politecnico ho davvero avuto paura di non farcela. Quei due esami erano la mia bestia nera. Mi preparavo, studiavo di notte e venivo bocciato. Ci ho messo mesi e mesi a passare analisi 1. Poi, a giugno, in una bella giornata che ricorderò sempre, sono riuscito a sbloccarmi. Quella volta, quando il professore mi ha detto che avevo superato l’esame, ho capito che se stringevo i denti avrei potuto farcela davvero ».
Perché sia davvero un lieto fine non basta la laurea triennale e per quella magistrale ci vogliono ancora due anni di studi e fazzolettini. Rachid spera che non sia così: «Per me questa è solo una tappa. Voglio immaginare che con la laurea triennale ci sia qualche studio di ingegneria che possa farmi lavorare. Sarebbe importante capire presto che cosa è davvero il mondo del lavoro in questo mestiere. Certo, non nascondo che trovare il lavoro in uno studio per me vorrebbe dire abbandonare finalmente la vetrina ». Il salto sociale che non solo lui ma tutta la famiglia ha sognato da quindici anni. «Io non sono solo. I miei fratelli e i miei cugini hanno lavorato anche per me, si sono sacrificati perché studiassi in questi anni. Senza di loro non ce l’avrei mai fatta». Rachid è il front man di un gruppo rock, l’ultimo velocista di una staffetta sociale, il rugbista che i compagni sollevano perché possa salire in cielo a catturare il pallone. Dietro di lui c’è un lavoro di gruppo, diviso tra l’Italia e il Marocco, tra i fazzoletti di carta che i fratelli vendono nel centro storico e il piccolo terreno coltivato a Kourigba dalla madre e dagli altri fratelli rimasti in patria. Tutti hanno puntato su di lui, tutti lui oggi deve ringraziare.
E dopo? Che cosa c’è nelle prossime sequenze del film sulla favola bella dell’ingegnere dei fazzoletti? Una sola certezza: «Il principale obiettivo è il lavoro. Un lavoro buono, da ingegnere, che serve per vivere e serve perché ti piace». Non sono molti i cantieri aperti a Torino in questo periodo, anche la vita dell’ingegnere civile rischia di essere grama: «Ti sbagli. Stanno costruendo due grattacieli, una stazione nuova, il passante ferroviario. E in ogni caso, se non troverò lavoro qui andrò altrove. Ho fatto tremila chilometri da casa mia per arrivare in questa città e cercare di avere un titolo di studio. Non mi sconvolge certo l’idea di spostarmi da un’altra parte se sarà necessario. Caro giornalista ricordati una cosa: il grafene non si spaventa. Resiste quattro volte più dell’acciaio».
La Repubblica 09.10.13
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“Ecco Pape, Priya e Stephen i ragazzi che ce l’hanno fatta”, di VLADIMIRO POLCHI
Pape Alassane, Priya Mary, Stephen, Tamas Laszlo. Sono tanti gli eroi dell’immigrazione. Un caleidoscopio di facce e storie che parlano di sbarchi, centri d’accoglienza, precariato e poi l’approdo: un posto di lavoro, un titolo di studio, una nuova vita. Sì, perché spesso chi lascia la casa e rischia la vita in un lungo viaggio è la “meglio gioventù” del Paese d’origine.
È la stessa parabola di Cécile Kyenge, prima ministra “nera” della Repubblica, a raccontare molto della nuova Italia multietnica: la sua storia parte da Kambove, nella provincia congolese del Katanga, passa per un periodo da precaria, un impiego da badante, la professione di medico oculista e arriva a Roma in Largo Chigi 19, sede del ministero dell’Integrazione. Ma molti altri, come lei, possono dire: «Ce l’ho fatta».
Priya Mary Angshalah Gnanaseeelan, per esempio. Priya è una bella ragazza di origine tamil e detiene un record: è stata la prima donna laureata della sua comunità in Sicilia. Il suo sogno si è realizzato il 10 novembre del 2011: una laurea a Palermo, 110 e lode, in tecniche di radiologia medica per immagini e radioterapia. Una titolo che vale doppio, visto che Priya ha sempre lavorato durante gli studi. Oggi vive a Londra, si è sposata, ha un bambino e continua a studiare. Ha scelto il ramo medico, dice, per aiutare i suoi connazionali. Priya deve ringraziare qualcuno: i suoi due fratelli che vivono in Germania: «I miei genitori hanno problemi di salute e non lavorano. Se non ci fossero stati i miei fratelli, non avrei potuto mantenermi. Questa laurea è stata sentita da tutta la comunità: il giorno della proclamazione erano tanti, parenti e amici, intorno a me».
Ci sono poi gli “invisibili”, quelli arrivati da irregolari e poi usciti alla luce del sole. Pape Alassane Fall è uno di loro. Classe 1975, si è lasciato alle spalle il Senegal ed è arrivato in Italia nel maggio del ’99, senza visto, né permesso. Per tre anni è stato irregolare: «Lavoravo come ambulante in Sardegna. Vendevo calzini e occhiali». Poi l’incontro: Pape Alassane si innamora di una ragazza sarda e la sposa. Con le nozze arrivano anche i documenti e una vita da regolare. «In Sardegna però non c’era lavoro – ricorda – e per questo sono venuto in Veneto, dove viveva mio fratello minore. Qui mi sono messo a lavorare in una fabbrica che costruiva passerelle per yacht. Ma i turni erano pesanti e il mio sogno restava quello di usare la mia laurea in informatica». Così Pape mette da parte qualche soldo, si licenzia e, nel 2007, apre la sua agenzia. Oggi lavora come grafico, ha molti clienti, vive a Mirano in provincia di Venezia e ha due bambine. «Ho avuto qualche difficoltà all’inizio – ammette – perché un senegalese che parla di tecnologia suona strano alle orecchie degli italiani. Poi le cose sono andate meglio». Sarà anche perché oggi a sentirlo parlare, Pape sembra più un veneto, che un africano.
Stephen invece è stato addirittura un bambino-soldato. A sei anni le forze governative liberiane hanno ucciso i suoi genitori. Da allora viene addestrato a impugnare le armi e a diventare un guerriero. Uccide, violenta, ruba. Nel 2009, quando in Liberia cambia il regime, riesce a fuggire: un lungo viaggio a piedi attraverso il deserto che lo porta fino in Libia. Qui si imbarca per Lampedusa. Peccato che la sua richiesta d’asilo venga bocciata dalle autorità italiane. Per Stephen non rimane che la clandestinità. Poi finalmente approda all’ambulatorio per migranti del policlinico di Palermo. Stephen ha un grave disagio psicologico, non dorme e ha flashback continui delle violenze vissute. Dopo una lunga terapia e con l’aiuto del teatro Stephen si libera del passato. A 19 anni è il protagonista di uno spettacolo in giro per i teatri di mezza Italia: lavora per la compagnia “Exstranieri” del regista palermitano Giuseppe La Licata. Si guadagna da vivere e ha ottenuto il permesso di soggiorno.
Non mancano poi rovesciamenti degli stereotipi: perché se gli stranieri tolgono lavoro, talvolta lo danno anche. Stando a una ricerca Cnel del novembre 2011, la media è alta: un assunto italiano ogni due imprese di immigrati attive. Un esempio? Tamas- Laszlo Simon, ungherese, nato a Marosvasarhely 45 anni fa, è arrivato in Italia rischiando la vita: ha attraversato a nuoto il Danubio al confine con la ex Yugoslavia nel 1985. Con l’idea di fare qualcosa di buono per il mondo dove vivranno le sue due figlie, nel 2008 fonda a Roma “Eadessopedala”: il corriere in bici ecologico. La scintilla gli è scattata quando ha letto la storia di due fratelli di Budapest, che avevano avviato un servizio di pony express in bici. E così ha pensato di poter ripetere il “miracolo” anche nella città eterna. Oggi Tamas- Laszlo ha vinto il “Money-Gram Award 2013” nella categoria innovazione, impiega 12 persone, tutte italiane (spesso laureate) e per il 2013 stima un giro di affari di circa 100mila euro. Il suo scopo? Ambizioso: fare circolare 50.000 automobili in meno quotidianamente sulle strade di Roma.
La Repubblica 09.10.13