Un governo più stabile si avvia a varare la sua prima legge di stabilità. Ha solo questa cartuccia se vuole contribuire a far ripartire l’economia italiana nei 15 mesi che lo separano dalla fine del suo mandato. Gli spazi di manovra sono minimi. Il che impone di concentrarsi sulle priorità. Sin qui, l’unica conclamata è quella legata alla disoccupazione, soprattutto giovanile. È la priorità giusta perché questo mercato del lavoro penalizza i consumi e spreca il capitale umano di cui disponiamo. Dopo le parole e le misure cosmetiche come il bonus giovani, è tempo di passare ai fatti. Un taglio di 2 miliardi del cuneo fiscale è inutile. Solo una riduzione di almeno due punti e mezzo della pressione fiscale sul lavoro può avere effetti significativi sull’occupazione. Vale un punto di Pil. Vediamo prima perché e poi come attuarlo e finanziarlo. La priorità oggi non può che essere il lavoro. Sono circa sette milioni le persone disoccupate, sottoccupate o inattive solo perché scoraggiate dopo aver a lungo cercato un lavoro. Quasi la metà di queste ha meno di 35 anni, i lavoratori più istruiti di una forza lavoro che ha un capitale umano più basso che negli altri paesi Ocse. Ed è gravissimo il fatto che, tra quelli attivamente presenti sul mercato del lavoro, quasi solo un giovane sue due trovi un impiego. E non è certo perché i giovani sono schizzinosi: un terzo di quelli che lavorano, lo fanno per meno di 5 euro all’ora, in più del 50 per cento dei casi si tratta di lavori temporanei, spesso con orari più corti di quelli che si vorrebbe (l’80% dei giovani che lavorano part-time vorrebbe un impiego a tempo pieno). In queste condizioni, chi può, e sono in genere coloro che hanno livelli di istruzione più elevati, se ne va all’estero dove i tassi di disoccupazione giovanile arrivano a malapena alle due cifre. Affrontare questo problema non serve solo a stimolare i consumi. Serve per evitare di sprecare capitale umano, il fattore strategico per uscire dalla crisi.
Se il lavoro è davvero la priorità del governo, bene che passi dalle parole ai fatti. A fronte dei numeri appena ricordati, le 6500 domande di assunzione presentate a venerdì per il bonus giovani sono un segno di impotenza. Ci vorrà del tempo per stabilire se sono davvero assunzioni aggiuntive o fanno parte di quelle 120.000 assunzioni che si registrano in Italia mediamente ogni mese anche senza il sussidio. In ogni caso, questi bonus hanno già assorbito un decimo delle risorse messe a disposizione sulla carta da qui al 2016. In verità, hanno già esaurito i fondi perché le Regioni, come denunciato nei giorni scorsi su queste colonne, non stanno contribuendo al finanziamento della misura. Non capiamo come Letta abbia potuto vantarsi di queste misure nella sua replica al Senato. Ora si parla di ridurre il cuneo fiscale e contributivo (oggi mediamente al 46 per cento) che grava sul lavoro. Secondo il sottosegretario Dell’Aringa, l’esecutivo sarebbe intenzionato a destinare a questo intervento 2 miliardi. Significa 30 euro in più in busta paga all’anno per chi ha salari di 30.000 euro lordi e 60 euro di costi in meno per il suo datore di lavoro. Pensate che se ne accorgerebbero? Se si vuole davvero stimolare la domanda di lavoro serve un intervento più consistente, almeno due punti e mezzo in meno di prelievo. Significherebbe per un lavoratore con stipendio medio intorno ai 30mila euro trovarsi 250 euro all’anno in più in busta paga e far risparmiare 500 euro al suo datore di lavoro. Ma un intervento di questo tipo costa attorno ai 16 miliardi.
Dove trovare i soldi per un’operazione di questo tipo? La strada maestra dovrebbe essere quella di tagliare la spesa improduttiva, i famosi sprechi, ma sin qui il governo non ha fatto nulla per metterci in questa condizione. Solo a cinque mesi dal giuramento a Palazzo Chigi, si sta finalmente avviando la spending review, tra l’altro all’insegna degli stessi errori compiuti dagli esecutivi precedenti. La rassegna della spesa non può infatti essere affidata a un uomo solo, per quanto valido come Enrico Bondi o Carlo Cottarelli. Non può neanche essere delegata interamente a dei tecnici perché comporta inevitabilmente scelte di natura politica. Per capire quanto contino i tecnici in queste scelte, basti pensare al fatto che non c’è forse mai stato nella storia repubblicana un governo in cui la Banca d’Italia sia stata più influente di questo. Eppure il governo sin qui ha attivato tutti gli strumenti tipici dei governi balneari degli anni ’70 e ’80: accise sulla benzina, tasse sui giochi e sulla sigarette. Cose alquanto indigeste per chi ha studiato l’economia.
In attesa degli esiti di una spending review che richiederà almeno un anno, non rimane che la strada dei tagli selettivi (non lineari!) della spesa pubblica. Bisognerebbe partire dagli incentivi alle imprese (una torta compresa tra i 5 e i 10 miliardi perché non si sa ancora a quanto ammontino le somme impegnate dalle Regioni) e dai 7 miliardi che ogni anno spendiamo per le cosiddette politiche attive del lavoro, in realtà in corsi di formazione di assai dubbia efficacia. Poniamo che da questi due capitoli si possano ricavare 10 miliardi. Il resto dei tagli non potrebbe certo escludere i capitoli di spesa che sono cresciuti di più negli ultimi anni, pensioni e sanità, che ormai assorbono metà della spesa corrente. Qui si tratta di tagliare mentre si persegue una maggiore equità. Si possono, ad esempio, prevedere tagli alle pensioni d’oro e una riduzione dei trasferimenti alle Regioni a fronte del superamento dell’assistenza sanitaria gratuita per chi ha redditi elevati. Possibile anche ridurre le disparità territoriali nelle remunerazioni nel pubblico impiego, dove non si tiene minimamente conto delle grandi differenze presenti nel costo della vita, quindi nel potere d’acquisto dei salari, fra diversi mercati del lavoro locali. Ma non è realistico e neanche opportuno (avrebbero effetti recessivi) che tutti questi tagli intervengano subito. Se la riduzione del cuneo fiscale dovesse concentrarsi sui salari più bassi, si potrebbe negoziare con l’Europa il suo finanziamento tramite il Fondo Sociale Europeo per i primi due anni, usando il precedente della Spagna o della Repubblica Slovacca. Se, invece, si trattasse di una riduzione generalizzata dei contributi previdenziali (che li porti dall’attuale 32,7 per cento al 30 per cento) si potrebbe ottenere di finanziarla in parte in disavanzo, facendo valere il fatto che in un sistema contributivo queste riduzioni sono, a lungo andare, sostenibili.
Quale che sia la strada che si intende perseguire, l’Europa ci verrebbe incontro solo se siamo in grado di garantire fin da subito coperture strutturali per il taglio del cuneo fiscale, almeno a partire dal 2016, con provvedimenti già approvati dal Parlamento. Nel frattempo la spending review potrebbe identificare tagli agli sprechi che valgano altrettanto se non di più. Questo modo di procedere avrebbe il vantaggio di mettere il governo che opererà dopo le elezioni del 2015 nelle condizioni di scegliere se mantenere i tagli selettivi già votati e destinare le risorse così risparmiate a misure importanti come il reddito minimo (cui ha fatto riferimento il ministro Giovannini sabato su queste colonne) oppure sostituire i tagli selettivi già approvati con le misure varate nel contesto della spending review. Sarebbe anche un modo di orientare, per una volta, una campagna elettorale su scelte concrete. È chiaro che un’operazione di questo tipo è incompatibile con l’abolizione completa dell’Imu sulla prima casa. Il governo potrebbe limitarsi a ridurre le tasse sulle compravendite immobiliari, in modo da rivitalizzare il mercato delle abitazioni. Se è davvero finita l’era dei ricatti, se è finita la stagione della spesa pubblica e delle tasse che si rincorrono al rialzo iniziata 20 anni fa, è bene mostrarlo subito, sapendo che un taglio permanente e consistente del cuneo fiscale avrebbe effetti sull’occupazione ancor prima di entrare in vigore dal primo gennaio 2014.
La Repubblica 08.10.23