Il potere carismatico di Berlusconi si è infranto con la ribellione dei suoi seguaci. Un leader che si è affermato solo e soltanto grazie alla sua forza. Una forza economica, mediatica, comunicativa e quant’altro. E Berlusconi che, senza essere stato scelto da un gruppo di pari o da un organismo collettivo, non “ammette” una rivolta interna. La sua voce deve essere sempre ascoltata religiosamente: contiene un messaggio da seguire e realizzare. Non prevede deviazioni o cedimenti. Per quasi vent’anni Berlusconi ha goduto di un potere assoluto nei suoi partiti (a parte la breve parentesi della convivenza con Gianfranco Fini). Un potere che gli derivava da uno stato di grazia sancito da scelte vincenti, e per questo indiscutibili, che rinsaldavano il vincolo fondativo dei sostenitori con il capo. Questo non vuol dire che il Cavaliere si sia comportato come un autocrate nel senso pieno del termine. Non ha mai deciso in totale solitudine. Si è sempre circondato
di amici e consulenti (e talvolta di qualche politico) con i quali discutere e confrontarsi. Poi le decisioni venivano prese da lui solo e, imprimendovi il suo sigillo, se ne assumeva tutto il “carico”. Onori e oneri, quindi.
Quello stato di grazia si è volatilizzato. La rottura con Angelino Alfano e il gruppo dei ministeriali ha trascinato Berlusconi allo stesso livello di ogni altro leader politico, dentro e fuori il partito. La sua parola non è più il verbo. L’atto pubblico di sottomissione recitato in Parlamento annunciando il voto di fiducia ha umanizzato il Cavaliere e quindi annullato il suo carisma. D’ora in poi qualunque decisione egli vorrà prendere sarà naturale domandarsi cosa ne pensano Alfano e soci. In un partito normale questa situazione sarebbe rubricata come una normale, fisiologica lotta per il potere, dove vincitori e vinti possono (più o meno tranquillamente) alternarsi al comando senza alterare la natura del partito. Nel caso di una formazione carismatica come quella berlusconiana al leader non è consentito perdere uno scontro interno decisivo. Il Cavaliere ha potuto mascherare i fallimenti della sua politica grazie alle manipolazioni attivate dal suo impero mediatico e alla docilità/convinzione dei suoi seguaci, ma ora nulla può di fronte alla capitolazione su un punto così cruciale come la fiducia al governo.
Il Pdl è oggi un partito senza guida. Berlusconi non ha più l’autorità per indicare una via, i rivoltosi non hanno ancora una struttura e una configurazione politico- culturale autonoma. Il partito non rischia la dissoluzione come l’anno scorso quando capi e capetti cercavano una loro strada prefigurando un disastroso big bang. La frattura interna esplosa in questi giorni divide il partito in due componenti che riflettono strategie diverse, una accomodante e filo governativa, e una aggressiva e barricadiera, rappresentata da chi voleva occupare stazioni e aeroporti contro la decadenza di Berlusconi (proprio per essere in sintonia con l’opinione pubblica moderata!). Il distacco delle colombe evidenzia una divaricazione di linea strategica, oltre che una sensibilità più istituzionale, ma non è ancora innervata da una cultura politica, da valori e prospettive, da progetti e orizzonti, distanti dal mondo berlusconiano e dalla sua guardia pretoriana. Queste ore, con i voti sulla decadenza di Berlusconi dal Senato, non facilitano il distacco dei filo-governativi dall’imprinting del vecchio leader. La mozione degli affetti inevitabilmente pesa. Ma la scelta di Angelino avrà un esito fecondo per il sistema politico italiano solo se avrà la forza, anche intellettuale, di distanziarsi dalla lunga notte del populismo berlusconiano.
La Repubblica 07.10.13