Siamo il Paese delle colf e delle badanti, candidato alla decrescita più che ad agganciare la ripresa. Benvenuti! Sì, è vero, l’Italia industriale declina ma resiste, siamo pur sempre la seconda economia manifatturiera dell’Europa dopo la grande Germania. Ma avanza silenzioso il nuovo operaio- massa, quello dei servizi alle famiglie, del lavoro domestico, dell’assistenza agli anziani, composto soprattutto da donne straniere. Quello del terziario arretrato in un Paese che invecchia e continua a perdere colpi rispetto al club delle economie dell’Ocse. Accade nelle province del nord postindustriale, come in quelle del sud proto-industriale, senza significative distinzioni. È la nostra metamorfosi del lavoro. È la via tutta italiana alla mini-crescita o alla stagnazione permanente. Dove le imprese hanno ormai deciso di abbassare del 15-20%, e anche più, il proprio potenziale produttivo, e dove aumenta la quota di lavoratori a bassa professionalità a scapito del lavoro intellettuale ad alta intensità di conoscenze e di innovazione. Una anomalia in Europa, che non fa vedere la luce in fondo al nostro tunnel. Perché la direzione intrapresa dai nostri partner continentali va esattamente in direzione opposta: più occupazione qualificata, meno addetti generici. Guida la Germania, anche questa volta, nonostante i milioni di mini-job da 6-700 euro al mese, che è ripartita dalla sua recessione investendo proprio sulla formazione e riqualificazione del capitale umano, sulla flessibilità nell’organizzazione interna delle imprese più che sulla flessibilità in entrata, spesso fine a se stessa, nel mercato del lavoro.
Emilio Reyneri, sociologo del lavoro alla Bicocca di Milano, e Federica Pintaldi, ricercatrice dell’Istat e docente alla Sapienza di Roma, hanno indagato sul nostro mercato del lavoro spiegando anche ai non esperti le caratteristiche dell’occupazione e della disoccupazione in Italia, ma soprattutto cercando di interpretare i segnali per comprendere cosa succederà dopo, quando in un modo o nell’altro saremo fuori da questa lunga recessione. Ed è questo l’aspetto più originale della ricerca che è stata raccolta in un volume (“Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi”) che uscirà giovedì per i tipi del
Mulino.
Perché non è solo il Pil — per quanto fondamentale — che ci dice dove andremo a finire e come saremo oltre la recessione. Ci sono altri indicatori. Pure il mercato del lavoro, la tipologia dell’occupazione, la domanda di lavoro, gli occupati e i disoccupati, lo sono. E non sono incoraggianti per il nostro futuro. Nel tumulto della Grande Crisi non siamo stati capaci di guardare (anche in questo caso come in molti altri) oltre il contingente, abbiamo imboccato pigre scorciatoie seguendo le quali rischiamo di perdere il treno della ripresa quando passerà. Scrivono Reyneri e Pintaldi: «Contrariamente alla media dei Paesi dell’Unione europea a 15, in Italia diminuiscono gli occupati nell’istruzione e nei servizi alle imprese (dalla pubblicità al marketing, dalla consulenza tecnica a quella manageriale, dalla ricerca e sviluppo alla gestione delle risorse umane), mentre crescono in misura considerevole quelli nei servizi per le famiglie, cioè nel lavoro domestico e nell’assistenza delle persone anziane. Quindi l’Italia reagisce alla crisi aumentando non i settori ove si concentrano le potenzialità di innovazione scientifica, tecnologica e culturale, ma quello ove queste potenzialità sono minori». E i numeri — come sempre in questi casi — sono impietosi, azzerando i margini interpretativi: in Europa c’è in media un occupato nel settore dell’istruzione ogni 30 abitanti, mentre da noi (dove le spese per la scuola per anni sono state considerate solo un costo da tagliare) ce n’è uno ogni 41 abitanti. Ma dilaghiamo nei servizi alle famiglie a
conferma di un welfare state costoso ma inefficace: abbiamo un occupato ogni 84 abitanti contro una media europea di 159.
L’Italia è il Paese in cui gli investimenti pubblici e privati in ricerca e innovazione non vanno oltre, nel complesso, all’1% del Pil. Poco, pochissimo. Con scontate ricadute pure sulla composizione del nostro mercato del lavoro. Ma anche sul Pil, se si pensa — come ha dimostrato Enrico Moretti, giovane economista dell’Università di Berkeley che piace tanto a Barack Obama — che ogni singolo posto di lavoro creato nei settori innovativi ne produce a cascata almeno cinque nei settori tradizionali. Non succede in Italia, però. Perché l’Italia «è quasi l’unico Paese europeo — scrivono Reyneri e Pintaldi — in cui dal 2008 (anno in cui scoppia la crisi globale, ndr) le professioni più qualificate, cioè quelle intellettuali e tecniche, diminuiscono, mentre continuano ad aumentare le occupazioni elementari ». Tra gli intermedi scende la quota degli operai specializzati e qualificati, mentre aumenta quella delle occupazioni non manuali poco qualificate, come gli impiegati e gli addetti alle vendite e ai servizi personali. In Germania è accaduto esattamente il contrario. E così — concludono i due ricercatori — dopo la stagione, nei decenni passati, della “via bassa alla crescita”, abbiamo imboccato quella della “via bassa alla decrescita”. Pessima scelta.
La Repubblica 07.10.13
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Sgravi neo-assunti, le Regioni chiedono incontro a Letta
«Le Regioni del Centro Nord utilizzano pienamente le risorse dei fondi strutturali e il loro impiego è in linea con gli obiettivi fissati dall’Unione Europea». Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni, e la presidente dell’Umbria, Catiuscia Marini, rispondono all’allarme lanciato da Repubblica e alle dichiarazioni del ministro Carlo Trigilia sul tema dei fondi europei e sullo spreco di risorse, pari ad un miliardo, destinate alla decontribuzione delle assunzioni degli under-30: «Non esistono “sprechi”, ma il pieno utilizzo delle risorse, secondo la programmazione approvata dalla Commissione europea».
Inoltre, proseguono, «per quanto riguarda il Fondo sociale europeo, le Regioni hanno attivato numerose azioni importanti proprio in materia di politiche attive per il lavoro. E molte di tali misure comprendono
proprio incentivi per l’assunzione dei giovani e per la stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari». «La verità — concludono Errani e Marini — è che tutte le Regioni, come ben sa il ministro Trigilia,
hanno dato la loro piena disponibilità al riutilizzo di ogni risorsa residua. Per questo motivo abbiamo chiesto un incontro urgente con il presidente del Consiglio, Enrico Letta».
Una replica giunge anche dalla Toscana. Secondo l’assessore alle attività produttive Gianfranco Simoncini «non ci sono risorse inutilizzate o sprecate che potevano andare a finanziare la decontribuzione per l’assunzione di giovani. Colpisce che non si sia tenuto in considerazione quanto le Regioni hanno spiegato con chiarezza al ministro». Infine il governatore del Lazio Nicola Zingaretti spiega che «la Regione ha destinato 38 milioni di euro del Fondo sociale europeo e 20 milioni del Fondo europeo per lo sviluppo regionale per un totale di 58 milioni, all’iniziativa del governo denominata Click day.
La Repubblica 07.10.13