«Si è chiuso un ventennio», ha sostenuto, ieri, Enrico Letta. Affermazione impegnativa e un po’ rischiosa. Perché Berlusconi, in questi vent’anni, è stato dato per finito altre volte. Almeno quattro, se i miei conti sono esatti. Salvo risollevarsi e “mordere ancora”, come ha rammentato Eugenio Scalfari, nell’editoriale di ieri. Meglio dire che si è chiusa una “settimana decisiva”, nella biografia del Pdl-Forza Italia. Segnata, questa volta, non dalla ribellione di un leader, ma dal dissenso aperto di una componente molto ampia, in Parlamento. Fino a ieri, fedele a Berlusconi. Così il centrodestra appare diviso. Senza un partito né un leader di riferimento. Mentre il Centrosinistra è in crescita, unito intorno al Pd. Il governo, peraltro, esce rafforzato e il premier, Enrico Letta, legittimato.
È il quadro che emerge dal sondaggio dell’Atlante Politico di
Repubblica, condotto da Demos nei giorni scorsi. Le stime di voto, al proposito, offrono indicazioni chiare. Il Pd sale oltre il 32%, 4 punti più del mese scorso. Mentre il Pdl scivola al 20%: 6 punti meno di un mese fa. Una caduta pesante, che favorisce il sorpasso del M5S. Stabile, intorno al 21%, diventa, dunque, il secondo partito (nei sondaggi, almeno). La maggioranza degli elettori (intervistati) ritiene, d’altronde, che la crisi di governo abbia rafforzato l’esecutivo e, parallelamente, indebolito (in misura molto più ampia) il Pdl-FI e, ancor più, Berlusconi.
Non a caso, la fiducia nel governo è cresciuta, nell’ultimo mese. Insieme alla convinzione circa la sua durata. Solo poche settimane fa, il 41% degli elettori pensava che non sarebbe durato più di sei mesi e solo il 26% gli attribuiva più di un anno di vita. Oggi le proporzioni si sono invertite. Meno di un elettore su tre scommette sulla crisi di governo nei prossimi sei mesi. Oltre il 40%, invece, crede che durerà molto più a lungo. Almeno un anno e forse più.
Non so se questi elementi siano sufficienti a recitare il de profundis
di Berlusconi e del berlusconismo. Sicuramente sottolineano l’avvio di una fase di turbolenza, che investe, anzitutto, il centrodestra. Ma non solo. La fine del ventennio annunciata da Letta, nell’intervista a Maria Latella su Sky, riguarda, infatti, anche il Centrosinistra. La cui identità politica è stata segnata dall’antiberlusconismo. Mentre dal berlusconismo ha ricavato alcuni elementi fondativi. In particolare, la personalizzazione e il ricorso alla comunicazione mediale.
Naturalmente, tensioni e cambiamenti, nel centrodestra, mostrano un’intensità maggiore. Anzitutto, sul piano della leadership. Silvio Berlusconi, infatti, è all’ultimo posto nella graduatoria dei leader politici italiani. Gli riconosce fiducia meno del 18% degli elettori. Dieci punti in meno rispetto allo scorso maggio. Il punto più basso da quando l’Atlante Politico di Demos conduce i suoi sondaggi. Angelino Alfano, il delfino che ha guidato l’ammutinamento contro il Capo, ottiene un consenso doppio: il 36%. Quasi 10 punti più di un anno fa. Se, fra gli elettori di Fi, Berlusconi è ancora il più apprezzato, nel centrodestra, Alfano prevale, di poco. Il centrodestra, dunque,
non ha più “un” solo Capo. Il leader storico, il fondatore: non è più capace di imporre le proprie scelte. Ma, per ora, non c’è un altro Capo in grado di “uccidere” il padre (metaforicamente) e di prenderne il posto (di fatto). Tuttavia, il problema di questo centrodestra è
che deriva e dipende dal partito personale di Berlusconi. Senza un riferimento “personale” preciso e riconosciuto, non può avere identità né continuità.
Nel Centrosinistra si assiste a un processo simmetrico. Nella graduatoria dei leader, infatti, Enrico Letta è primo (57%). Davanti a Matteo Renzi (53%). Destinato a diventare segretario del Pd. Alle prossime primarie, fra due mesi, non ha avversari. Tuttavia, la fiducia nel premier è legata al ruolo di governo. Mentre Renzi è, sempre di più, leader di partito e, dunque, una figura di “parte”.
D’altronde, in caso di elezioni, Renzi resterebbe il candidato preferito dal 43% degli elettori di centrosinistra (e dal 45% da quelli del Pd). Anche se un terzo sceglierebbe Letta. Tuttavia, per ora, le elezioni non sono all’orizzonte. E le primarie sanciranno, presto, la scelta di Renzi, come segretario. Il problema si porrà più avanti. Nel corso del tempo. Il tempo… È questo, semmai, il problema che potrebbe appannare l’appeal di Renzi. Ma anche l’immagine di Letta, al governo.
D’altronde, il Pd è, da sempre, un partito “impersonale”.
E ne ha pagato il prezzo, anche di recente. Alle ultime elezioni.
Per questo alla fine del ventennio di Berlusconi non è chiaro cosa avverrà. Dopo. Per ora, assistiamo alla perdita dei riferimenti politici e personali. Non c’è, infatti, un soggetto politico capace di “polarizzare” l’opinione pubblica. Di aggregare e di dividere. Non a caso, tutti i leader hanno perso fiducia “personale” negli ultimi mesi. Compresi i più apprezzati – Renzi e lo stesso Letta. Mentre il M5S, lungi dal declinare, ha mantenuto un grado di consensi molto ampio, nei sondaggi. E alle elezioni politiche dello scorso febbraio ha dimostrato di poter superare, nel voto, le stime demoscopiche. Perché il M5S interpreta bene questo passaggio di fine epoca. Senza certezze, senza bussole e senza mappe. Senza tempo. Senza quando, né dove.
La Repubblica 07.10.13
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“LA DESTRA INTROVABILE”, di PIERO IGNAZI
IL POTERE carismatico di Berlusconi si è infranto con la ribellione dei suoi seguaci. Un leader che si è affermato solo e soltanto grazie alla sua forza. Una forza economica, mediatica, comunicativa e quant’altro. E Berlusconi che, senza essere stato scelto da un gruppo di pari o da un organismo collettivo, non “ammette” una rivolta interna. La sua voce deve essere sempre ascoltata religiosamente: contiene un messaggio da seguire e realizzare. Non prevede deviazioni o cedimenti. Per quasi vent’anni Berlusconi ha goduto di un potere assoluto nei suoi partiti (a parte la breve parentesi della convivenza con Gianfranco Fini). Un potere che gli derivava da uno stato di grazia sancito da scelte vincenti, e per questo indiscutibili, che rinsaldavano il vincolo fondativo dei sostenitori con il capo. Questo non vuol dire che il Cavaliere si sia comportato come un autocrate nel senso pieno del termine. Non ha mai deciso in totale solitudine. Si è sempre circondato
di amici e consulenti (e talvolta di qualche politico) con i quali discutere e confrontarsi. Poi le decisioni venivano prese da lui solo e, imprimendovi il suo sigillo, se ne assumeva tutto il “carico”. Onori e oneri, quindi.
Quello stato di grazia si è volatilizzato. La rottura con Angelino Alfano e il gruppo dei ministeriali ha trascinato Berlusconi allo stesso livello di ogni altro leader politico, dentro e fuori il partito. La sua parola non è più il verbo. L’atto pubblico di sottomissione recitato in Parlamento annunciando il voto di fiducia ha umanizzato il Cavaliere e quindi annullato il suo carisma. D’ora in poi qualunque decisione egli vorrà prendere sarà naturale domandarsi cosa ne pensano Alfano e soci. In un partito normale questa situazione sarebbe rubricata come una normale, fisiologica lotta per il potere, dove vincitori e vinti possono (più o meno tranquillamente) alternarsi al comando senza alterare la natura del partito. Nel caso di una formazione carismatica come quella berlusconiana al leader non è consentito perdere uno scontro interno decisivo. Il Cavaliere ha potuto mascherare i fallimenti della sua politica grazie alle manipolazioni attivate dal suo impero mediatico e alla docilità/convinzione dei suoi seguaci, ma ora nulla può di fronte alla capitolazione su un punto così cruciale come la fiducia al governo.
Il Pdl è oggi un partito senza guida. Berlusconi non ha più l’autorità per indicare una via, i rivoltosi non hanno ancora una struttura e una configurazione politico- culturale autonoma. Il partito non rischia la dissoluzione come l’anno scorso quando capi e capetti cercavano una loro strada prefigurando un disastroso big bang. La frattura interna esplosa in questi giorni divide il partito in due componenti che riflettono strategie diverse, una accomodante e filo governativa, e una aggressiva e barricadiera, rappresentata da chi voleva occupare stazioni e aeroporti contro la decadenza di Berlusconi (proprio per essere in sintonia con l’opinione pubblica moderata!). Il distacco delle colombe evidenzia una divaricazione di linea strategica, oltre che una sensibilità più istituzionale, ma non è ancora innervata da una cultura politica, da valori e prospettive, da progetti e orizzonti, distanti dal mondo berlusconiano e dalla sua guardia pretoriana. Queste ore, con i voti sulla decadenza di Berlusconi dal Senato, non facilitano il distacco dei filo-governativi dall’imprinting del vecchio leader. La mozione degli affetti inevitabilmente pesa. Ma la scelta di Angelino avrà un esito fecondo per il sistema politico italiano solo se avrà la forza, anche intellettuale, di distanziarsi dalla lunga notte del populismo berlusconiano.
La Repubblica 07.10.13