C’è qualcosa che non convince nel dibattito sull’educazione occidentale. Per certi versi sembra che lo sviluppo dei sistemi scolastici costituisca un impegno prioritario per i responsabili politici dei diversi paesi, e che tale impegno trovi consenziente l’opinione pubblica. Lo sviluppo si gioverebbe, oltre che della sensibilità e dell’esperienza degli insegnanti, dell’apporto conoscitivo assicurato da un gran numero di ricercatori specializzati nei diversi settori della conoscenza educativa. Sembrerebbe, dunque, che esistano condizioni favorevoli perché alla crescita quantitativa, che ha caratterizzato lo sviluppo culturale e la storia sociale degli ultimi secoli, segua un adeguamento qualitativo, conforme alle esigenze che si sono venute progressivamente manifestando e che è presumibile emergano in una prospettiva anche non lontana. Ma, d’altro canto, sono sempre più diffusi atteggiamenti critici. Ci si chiede quali siano gli effetti dell’educazione scolastica e se sia giustificato l’imponente impegno di risorse necessario per assicurare l’istruzione per un numero consistente di anni alla generalità di bambini e ragazzi.
Negli ultimi decenni del Novecento si è affermata la convinzione che il raggiungimento da parte dei sistemi educativi di traguardi apprezzabili potesse essere verificato attraverso la comparazione dei risultati di apprendimento conseguiti dagli allievi. Associando alla comparazione dei livelli di apprendimento l’analisi delle differenze che si riscontrano nei valori di alcuni indicatori di contorno (per esempio, il numero degli insegnanti o quello delle ore di lezione) si è ritenuto che fosse possibile stabilire quali fossero le scelte più adeguate a perseguire intenti di qualità, orientando le decisioni politiche e rivedendo i modelli di funzionamento delle scuole.
In un’attività complessa, com’è quella educativa, ogni apporto conoscitivo è utile, a condizione che si sia in grado di integrare tale apporto con altri. È indubbio che le comparazioni abbiano contribuito a porre in evidenza i punti di forza e quelli di debolezza dei singoli sistemi scolastici, almeno fino a quando i dati comparativi non sono stati assunti come principale criterio per formulare valutazioni (impropriamente definite di sistema, perché limitate alla considerazione di aspetti formali e per lo più ignare di quelli informali) sulla qualità dell’educazione scolastica. Con gli anni, le valutazioni comparative hanno finito col prescindere dall’esplicitazione di un disegno culturale. Anzi, è avvenuto il contrario, e cioè che si affermasse la necessità di compiere rilevazioni su aspetti generali delle competenze di base (la comprensione della lettura, la matematica e le scienze), prescindendo dagli aspetti specifici che identificano nei singoli ambiti linguistici e culturali le attività di apprendimento. In altre parole, si è giunti a supporre capacità che prescindono dalle operazioni e dagli oggetti attraverso i quali sono acquisite. Dovremmo supporre, per esempio, una capacità di comprensione della lettura che prescinda dalla rilevanza che le letterature nazionali (o la storia, o il diritto, o l’arte, o l’organizzazione produttiva e via elencando) hanno avuto e hanno nel conferire significato ai testi. In altre parole, l’obiettivo più o meno consapevolmente e coerentemente perseguito dalle politiche scolastiche di vari paesi industrializzati è diventato quello di migliorare la posizione nelle graduatorie internazionali. Non ci si chiede più quale sia il disegno educativo che la scuola persegue, ma si ritiene importante figurare nelle posizioni elevate della graduatoria dei risultati o, quanto meno, di non scendere sotto il livello medio. In pratica, si considerano adeguati i risultati che non siano inferiori ad alcune soglie determinate empiricamente, anche se nessuno sarebbe in grado di affermare che quelle soglie corrispondano a profili educativi realmente apprezzabili.
In breve, si è affermata una nozione dell’apprendimento scolastico indipendente dalla cultura attraverso la quale si tende ad acquisire un determinato corredo di conoscenze. Si enfatizza l’importanza della capacità di comprendere il testo scritto, ma non ci si chiede perché, come e che cosa si proponga agli allievi di leggere. Si afferma la necessità che la razionalità matematica qualifichi il profilo degli allievi, ma si lascia che abitudini sociali indotte da pratiche consumiste prescindano dalla pratica effettiva di tale razionalità. Si esaltano le nuove conquiste della scienza, ma se ne banalizzano gli apporti o, peggio, si lascia spazio all’affermarsi di un pensiero magico, che elude le asperità della conoscenza richiamando categorie emozionali e suggestive.
L’educazione dell’Occidente, che fin dal mondo antico ha sviluppato proposte tese da un lato a promuovere la comprensione dei repertori disponibili, e dall’altro all’acquisizione di nuova conoscenza, si trova ora di fronte ad un ribaltamento, per il quale si riconosce una assoluta priorità a categorie di per sé astratte. Non si capisce, infatti, che cosa sia la comprensione senza che si indichi su che cosa tale capacità si debba esercitare. In realtà, se si analizzano gli aspetti metodologici e strumentali delle comparazioni che sono state all’origine del ribaltamento, si individua la presenza di una cultura non più rivolta a consentire il procedere di un disegno educativo, ma che accoglie, più o meno consapevolmente, istanze espresse dal mondo della produzione. Tali istanze sono alla base di una globalizzazione educativa sempre meno sensibile ad una cultura non finalizzata. Quello che si afferma è il concetto dell’utilità a breve termine dell’apprendimento scolastico, ed è fin troppo evidente che tale utilità non può essere riconosciuta a quegli elementi culturali che possono segnare il profilo degli individui per il corso della vita, ma che non concorrono – se non in modi molto mediati – a qualificare la capacità di operare a fini produttivi.
C’è da chiedersi che cosa resterà dell’educazione occidentale se il criterio dell’educazione dovesse continuare a essere la deculturalizzazione delle competenze. Una ventina d’anni fa Allan Bloom (un filosofo e critico letterario dell’Università di Chicago) pubblicò un libro sul quale si sarebbe dovuto riflettere assai più di quanto non sia avvenuto. Si trattava di The Western Canon: The Books and School of the Ages (New York, Harcourt Brace, 1994; trad. it. di F. Saba, Il Canone Occidentale, Milano, Bompiani, 1996). Bloom intende l’Occidente non come un riferimento geografico, ma come una rete immateriale che collega le culture delle varie tradizioni linguistiche e letterarie. Secondo Bloom si può riconoscere una continuità di simboli, che costituisce il riferimento comune dell’educazione occidentale. Omero è il padre dell’Occidente perché sui poemi omerici si è sviluppata la capacità di comprensione di quanti hanno fruito di educazione formale, ma – si potrebbe aggiungere – anche di quanti non ne hanno fruito che di riflesso, per l’incidenza che i riferimenti culturali hanno avuto sulla sensibilità comune e sul modo di esprimerla attraverso il linguaggio. Ovviamente, Omero è solo agli inizi di un percorso che, attraverso le culture del mondo antico, ha condotto al manifestarsi delle culture e delle lingue nazionali. Se ha un senso ritenere che l’Europa non sia la semplice somma di un certo numero di sistemi economici e che il richiamo all’insieme dell’Occidente non costituisca solo la rivendicazione del ruolo egemonico esercitato negli ultimi secoli, è perché la letteratura, la musica, le arti figurative, il pensiero filosofico e quello scientifico hanno rappresentato un sistema di valori condiviso.
La rincorsa della categoria dell’utilità si è estesa, come non sarebbe potuto non essere, dalla proposta educativa rivolta a bambini e ragazzi ai requisiti richiesti nel profilo degli insegnanti. Anche in questo caso si è operato un ribaltamento, per effetto del quale alla cultura si è sostituita una nozione della capacità di insegnare sempre più rarefatta, perché rivolta a inseguire un’operatività mentale sempre più povera di riferimenti culturali. La crisi che l’educazione occidentale sta attraversando può essere contrastata a condizione di uscire dall’eclissi che impedisce di riconoscerne il canone: non si tratta di conservare gli elementi che nel corso dei secoli sono stati presenti nel profilo delle élites sociali, ma di operare sui repertori del passato per dare solidità alle proposte per il futuro. E ciò vale per i bambini e i ragazzi come per i loro insegnanti.
da Tuttoscuola 06.10.13