In questo giorno così triste poca è la voglia di parlare di cinema. Carlo Lizzani, scomparso ieri all’età di 91 anni (era nato a Roma il 3 aprile 1922), era molto più di un semplice regista. Per noi dell’Unità era prima di tutto un amico e un compagno di strada, che tante volte ha scritto per il giornale (ad esempio in occasione del Nobel a Dario Fo, vecchio amico che diresse nel film Lo svitato, del 1956) e ci ha raccontato storie importanti a cavallo fra arte e politica.
L’amico e compagno va salutato a testa alta, rispettando la sua scelta estrema che già ieri, nei resoconti dei siti web, veniva paragonata a quella di Mario Monicelli: altro amico, altro maestro. Massimo rispetto per chi decide come e quando andarsene, anche se per chi rimane il dolore è terribile e il rimorso incancellabile.
Venendo all’opera di Lizzani, la parola «regista» continua a essere riduttiva. Carlo è stato uno storico, un intellettuale, un operatore culturale (memorabile la sua direzione di Venezia, che rilanciò la Mostra a cavallo fra anni ’70 e ’80), un attivista politico, in una parola: un instancabile cronista del Novecento. Non a caso aveva voluto intitolare la sua autobiografia Il mio lungo viaggio nel secolo breve (Einaudi, 2007). È un libro emozionante, che sarebbe utile leggere in parallelo a Volevo la luna, l’autobiografia di Pietro Ingrao uscita sempre per Einaudi l’anno prima, nel 2006. I due erano vecchi amici e avevano condiviso la lotta partigiana a Roma, avevano frequentato la storica rivista Cinema e conosciuto Luchino Visconti, in un’esperienza che aveva incrociato politica e cinema, sogni artistici e sogni di radicale cambiamento della società. Come tanti altri ragazzi che erano studenti sotto il fascismo, Lizzani esce dalla guerra con l’intento di contribuire a scrivere la storia, di fare dell’Italia un Paese nuovo. Non è un caso che nei giorni esaltanti della Liberazione Carlo sia a Milano, ufficialmente per sondare la possibilità di aprire una rivista di cinema in quella città, in realtà per essere dove tutto sta accadendo: la caduta e la cattura di Mussolini, la cacciata dei tedeschi, i partigiani che sfilano nelle città, la speranza di un futuro diverso.
Il cinema lo cattura e non lo molla più. Uno dei lavori più formativi per Lizzani è l’aiuto-regia per Roberto Rossellini, in Germania anno zero: vedere Berlino subito dopo la guerra, girare sequenze memorabili (alcune sono nel film finito) tra le macerie, conoscere una popolazione disperata che tenta di ritornare alla vita sono esperienze indelebili. Sempre in quegli anni (1946, per la precisione) partecipa a Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, dove interpreta un giovane sacerdote fucilato dai tedeschi. Collabora anche con Giuseppe De Santis, in Caccia tragica e in Riso amaro. Poi, nel 1951, il debutto con Achtung! Banditi!, in cui tiene a battesimo (come attore) un giovanissimo Giuliano Montaldo accanto a due star come Gina Lollobrigida e Andrea Checchi. È uno dei pochi film sulla Resistenza cittadina – fra gli operai di Genova – ed è prodotto con una formula innovativa, una «cooperativa di spettatori» che finanzia il film dal basso con il decisivo contributo delle sezioni del Pci. Con la stessa struttura, coordinata dal produttore/ partigiano Giuliani De Negri, realizza nel 1954 Cronache di poveri amanti. È il film che fa di lui un regista importante. Sempre negli anni ’50 dirige il citato film con Fo, Lo svitato, primo di una lunga serie di opere realizzate a Milano, città che – da romano sobrio e taciturno – adora. Sono «milanesi» due dei suoi film più belli, La vita agra da Bianciardi (1964) e Banditi a Milano sulla banda Cavallero (1968), antesignano del «poliziottesco»: il primo con uno splendido Ugo Tognazzi, il secondo con un travolgente Gian Maria Volontè.
Lizzani non è stato solo un regista di film storico-politici. Certo, ha rievocato nei suoi film momenti importanti della nostra storia: la tragedia degli ebrei romani in L’oro di Roma, le vicende di Edda e Galeazzo Ciano in Il processo di Verona, gli ultimi giorni del Duce in Mussolini: ultimo atto, la vita di Giorgio Amendola nel televisivo Un’isola, addirittura l’Urss delle purghe staliniane in Caro Gorbaciov. Ma ha frequentato anche il cinema di genere, sfiorando la commedia, dirigendo due western (Requiescant, con Pier Paolo Pasolini attore, e Un fiume di dollari) e dando il meglio di sé nel thriller, dal citato Banditi a Milano a titoli come Crazy Joe e Svegliati e uccidi. Non ha mai disdegnato, da vero intellettuale gramsciano, la narrazione popolare; è sempre stato convinto che un artista sia tale solo se non perde il contatto con il pubblico.
Oltre alla citata autobiografia, Carlo Lizzani ha pubblicato un’antologia di scritti critici intitolata Attraverso il Novecento e un libro, Il giro del mondo in 35 mm., dove racconta con orgoglio di aver attraversato, da cineasta, tutti e cinque i continenti.
A Venezia 2013, un mese fa, lo si è visto nel documentario di Gianni Bozzacchi Non eravamo solo ladri di biciclette, dove raccontava un aneddoto inedito e gustoso: nella famosa sequenza di Riso amaro in cui Vittorio Gassman balla il boogie-woogie con Silvana Mangano, fu Lizzani a fargli da controfigura perché ballava meglio dell’attore. Ci piace, oggi, salutarlo così: pensando a un ragazzo nemmeno trentenne che balla nell’Italia del dopoguerra, sognando un futuro che ha riservato molte delusioni, ma anche tante gioie e tante, mirabolanti avventure.
L’Unità 06.10.13