Ieri è stata la giornata del dolore e della vergogna, e forse avrebbe dovuto essere anche quella del silenzio della umana pietas. Da oggi siamo chiamati, tutti, a trasformare la nostra attonita pietà in una presa di coscienza attiva delle nostre responsabilità. Il realismo che ci dice che l’ecatombe di Lampedusa è stata prodotta da un sistema non solo immorale, ma anche irrazionale e insostenibile.
Come si fa infatti a pensare che il mondo possa procedere senza crescenti disastri, atrocità e violenze se non verranno corrette le contraddizioni e le disarmonie che sempre più lo caratterizzano?
Vi è chi cerca di essere ottimista e sottolinea che, ad esempio, la povertà assoluta interessa oggi uno su cinque abitanti del mondo, mentre nel 1980 ne colpiva uno su due. Vero, ma le migrazioni dei disperati – se pensiamo al solo fattore economico – non sono direttamente proporzionali alla povertà assoluta, quanto piuttosto alla disuguaglianza. E la disuguaglianza, pure laddove si registra una crescita del Pil e un aumento delle aspettative di vita, non è in diminuzione, bensì in aumento, sia all’interno dei singoli Paesi che a livello internazionale.
E non si tratta solo di povertà. Anzi, se vogliamo davvero capire perché si rischia la vita per approdare sulle coste del mondo sviluppato, dobbiamo renderci conto che la vera ragione di questo tragico fenomeno va ricercata nella violazione dei diritti umani. L’emigrazione economica esiste di certo, e si regge appunto sul funzionamento delle leggi dell’economia: per fare un solo esempio, dal momento dell’inizio della crisi economica globale si è registrata un’inversione del flusso migratorio dall’America Latina alla Spagna. Se non c’è lavoro, gli «immigrati economici» non arrivano o ritornano ai propri Paesi d’origine.
Ma come si fa a dimenticare quelli che, dall’Afghanistan alla Siria, fuggono dalla guerra? E poi, abbiamo presente come si vive in Somalia, da dove veniva buona parte delle vittime di Lampedusa? Da oltre vent’anni non esiste uno Stato somalo, e il Paese è in balia di milizie e gruppi criminali. Chi fugge dalla Somalia non vuole vivere meglio, vuole vivere. E vuole che i propri figli abbiano una scuola e non siano esposti agli orrori dell’anarchia, regno dei violenti e dei corrotti di solito molto più atroce, per la gente comune, di una dittatura.
Sarebbe ora di prendere atto del fatto che i diritti umani, secondo principi e norme ormai universalmente riconosciuti, non si riferiscono soltanto alla libertà politica o religiosa, ma anche a una serie di livelli minimi in campo economico e sociale.
E la nostra responsabilità?
E’ nella nostra parte del mondo che vengono prese le decisioni fondamentali, sia economiche che politiche, che determinano il quadro globale in cui proliferano le distorsioni , le ingiustizie, le violenze. Ma se è legittimo discutere sull’entità della nostra colpa «attiva» diventa impossibile farlo se spostiamo il discorso sulle colpe di omissione. Basti pensare alla drastica riduzione delle risorse che i Paesi sviluppati stanziano per l’aiuto allo sviluppo. E’ vero infatti che la vera soluzione del problema che oggi stiamo drammaticamente registrando dovrebbe risiedere nell’estensione dello sviluppo economico ai Paesi e alle regioni meno sviluppate. Non si tratta solo di entità delle risorse, bensì anche – e probabilmente soprattutto – di come queste risorse vengono impiegate, e a beneficio di chi. Purtroppo la cinica definizione secondo cui l’aiuto allo sviluppo comporta «trasferire i soldi dei poveri dei Paesi ricchi (prelevati con le tasse) ai ricchi dei Paesi poveri» ha un suo tragico fondamento, se pensiamo che la corruzione che i donatori troppo spesso, per convenienza politica o economica, non contestano comporta la scandalosa appropriazione da parte di cricche al potere di risorse che dovrebbero essere destinate a venire incontro alle esigenze degli strati sociali più svantaggiati.
E’ certo vero che non si possono accogliere tutti quelli che cercano disperatamente di sfuggire alla non-vita della violazione dei diritti più fondamentali (primo fra tutti quello di far vivere la propria famiglia, i propri figli), ma si tratta di un’obiezione capziosa, se non indecente.
Visto che non possiamo fare tutto, sarebbe quindi giustificato non fare niente, non fare meglio, molto meglio?
Nel nostro caso, dobbiamo certo stare attenti a non pensare di scaricare le nostre responsabilità dicendo «ci pensi l’Europa», ma anche l’Unione Europea non può scaricare le sue responsabilità sull’Italia, tanto più se si pensa che l’Italia non è, per la maggior parte di chi cerca di sbarcare sulle nostre coste, la destinazione ultima, ma solo il transito verso altri Paesi Ue. In teoria la nostra frontiera è la frontiera dell’Unione, ma da questa realtà non sembra si stiano ancora traendo tutte le logiche conseguenze dal punto di vista sia normativo che operativo. E’ legittimo che l’Italia lo pretenda.
Ma è difficile non essere pessimisti, vi è sempre più chi cerca la legittimazione della politica prevalentemente sul piano della sicurezza e della tutela dei «nostri» contro «gli altri», degli autoctoni contro gli stranieri. E’ appena uscito un importante studio di Demos, un centro studi britannico, che ha il titolo:
Backsliders. Measuring Democracy (Regressioni. Misurare la democrazia) dove si passano in rassegna i segnali secondo cui in numerosi Paesi europei si registrano crescenti difficoltà per lo stesso mantenimento di quelle conquiste democratiche che erano fino a poco tempo fa considerate come definitivamente acquisite. Si registra addirittura, ormai in molti Paesi, il montare, sulla base della retorica anti-immigranti, della xenofobia e addirittura di partiti apertamente razzisti, premessa – ce lo insegna la storia – di derive antidemocratiche.
I poveri morti di Lampedusa ci chiamano moralmente in causa, ma anche ci ammoniscono sul nostro stesso futuro.
La Stampa 05.10.13