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“La strage delle mamme: salve solo in sei”, di Manuela Modica

Una strage di donne. Dei 155 superstiti 145 sono uomini. E i quattro bambini superstiti tutti sono maschi: sono solo sei le donne sopravvissute alla strage di Lampedusa di giovedì notte. Una disparità che sgomenta e che potrebbe divaricarsi ancora, dato che i sub scesi a perlustrare il relitto e il fondo del mare dicono di aver visto i cadaveri in faccia (senza poterli recuperare per le difficoltà create dal mare) e per quanto intuito raccontano di aver visto soprattutto donne e ragazzi.

Un inventario che fa il paio con quello dei primi superstiti portati in salvo dal gruppo di diportisti lampedusani. Erano tutti uomini i primi saliti sulla barca. «Ci hanno spiegato che le donne erano rimaste al largo con i bambini», racconta Grazia Migliosini che con 7 amici ha tratto in salvo 47 persone. Al largo con i più piccoli, mentre gli uomini nuotavano verso la costa a chiamare aiuto. Così, per cercare di custodire dalla paura i propri figli, le donne avrebbero atteso la morte.

Ma ci sarebbe una spiegazione anche nella collocazione nella stessa imbarcazione. Questa volta sono i minori a raccontare. I 40 minori sopravvissuti al più grave naufragio di migranti nella storia di Lampedusa e dell’Italia, ragazzi che ora si trovano al centro d’accoglienza. Di loro si occupano gli operatori di Save the Children: «Con grandi difficoltà, sono ancora molto scossi. Ci vorrà del tempo per chiarire tutto e per poterli aiutare». Spiega Alessio Fasullo, avvocato. I pochi che sono riusciti ad aprirsi con gli adulti italiani che chiedevano loro informazioni hanno spiegato che sul barcone le donne erano tutte sedute ai bordi e sarebbero rimaste così incastrate. Al poliambulatorio, invece, inavvicinabile un altro superstite, pazzo di dolore per la perdita dei due figli piccoli e della moglie.

Una sorte di genere dunque. La morte sul barcone pendeva sullebdonne e su molti ragazzi. Ora molte di loro giacciono sul fondo del mare, o nei sacchi neri di Lampedusa. A salvarsi sono state soltanto in sei di cui due incinte. Ma potevano essere cinque. Una di loro infatti era stata inserita in uno di quei sacchi in fila sul molo e catalogata come cadavere. Poi però uno dei medici nella verifica sui corpi sente il battito e viene trasportata d’urgenza in rianimazione al poliambulatorio di Lampedusa. Lì la donna riprende il respiro e il nome, si chiama Kebrat, «sono felice, sono viva». Da viva viene trasportata con l’elisoccorso all’ospedale Civico di Palermo. Dove racconta di aver viaggiato per tre giorni, senz’acqua: «Alcuni di noi hanno bevuto l’acqua del mare». Dall’acqua la fuoco delle coperta e poi dell’intero barcone, poi di nuovo acqua: «Mi sono tuffata e ho iniziato a nuotare, non ricordo più nulla solo tanti morti intorno a me e tanti bambini».

L’Unità 05.10.13

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