All’indomani del naufragio al largo dell’Isola di Lampedusa le fotografie dei sopravvissuti giungono su questo tavolo.
La finalità è sottoporle a un esame, paradossalmente definibile autoptico, dei volti e delle espressioni, corroborato dalle dichiarazioni rilasciate da due degli effigiati. Le immagini stesse non sono pubblicabili “in chiaro”, in ossequio a una comprensibile richiesta dell’Onu di non mettere a repentaglio le già tormentate vite dei familiari rimasti nei Paesi d’origine. Occorrerà pertanto al lettore fare uno sforzo per visualizzare le suggestioni dello scrivente. Le cui impressioni sono anzitutto basate su numeri.
I superstiti parlano di un carico di 500 vite umane. L’album fotografico si ferma a quota 153. La sottrazione è la cifra del massacro. La sua evidenza è data dall’assenza. Che ha natura sia quantitativa che qualitativa. Emerge nell’impatto visivo la sparuta presenza femminile. A un più attento esame la conta si ferma a 5 visi di donna su 153, corrispondenti ai numeri 42, 107, 108, 132, 149. La prima comunica smarrimento, la bocca semiaperta, lo sguardo vacuo, fisso su qualcosa che non c’è più. Sono occhi arretrati in un retrospazio dal quale continuano a vedere il passato prossimo, a una distanza che consente una salvezza nominale, di fatto ma non di diritto. La seconda e la terza trasmettono l’eco di una sfida perduta: riproveremo. Ma l’hanno già fatto, ed è così che è andata: non ci sono rivincite. La quarta implora nell’unico linguaggio con cui può parlare, quello degli occhi. Tiene le mani sollevate, è una resa. Dice, ripete: non lasciatemi andare. La quinta è adagiata su un pagliericcio,
non guarda nell’obbiettivo, non sembra neppure lì. Verrebbe da dire che non è mai veramente giunta a riva, di pensare che ha perduto qualcosa che valeva più di quel che le è rimasto, benché ad esserle rimasta sia la sua vita. Tutti diventiamo, prima o poi, dei sopravvissuti, ma nessun distacco è accettabile e alcuni vanno molto al di là della soglia per cui ragione o fede ci hanno preparati.
Di 153 soltanto 6 abbozzano qualcosa di simile a un sorriso, una certificazione dello scampato pericolo. Il numero 29, ad esempio: un telo sulle spalle, la fatica alle spalle. Sembra un podista sfiancato al traguardo. Uno che ce l’ha fatta? Uno che non ha ancora capito. Il paragone con l’atleta percorre tutto l’album e solo alla fine si precisa. Accade al quartultimo volto, il numero 150, adagiato su un mucchio di stracci, sfinito, i denti che serrano il respiro. Atterrato. È l’alfiere di una schiera di pugili, finito k.o. mentre altri sono rimasti in piedi barcollando, aggrappati alle invisibili corde della resistenza. Aspetta il conteggio come una liberazione per sé e per il 146, assopito con la testa sul guantone, il 143 che combatte i brividi avvolto nella carta stagnola, il 151 intubato, il 152 intubato, il 153 intubato. Combattenti alla deriva, senza una strategia, affidati a uomini sconosciuti, rotte ignote. E prevedibili destini.
Il 136 non ha paura. È uno di quelli che parla, racconta. È una storia già sentita. Le migliaia di dollari versati alla partenza. L’attesa in un Paese straniero. La notte della speranza. Cambia solo la modalità che scatena l’inferno. In questo caso: la coperta incendiata a scopo di segnalazione che ingigantisce il guaio e affretta l’affondamento. Di chi la colpa? Del numero 110, parrebbe. È uno dei 2 di carnagione chiara su 153. Ha una cicatrice sulla tempia destra. Abbassa e protende la testa, come volesse passare sotto un ostacolo. Ed è esattamente quel che sta facendo. Cerca di smarcarsi e di mascherarsi, di unirsi agli altri: non più scafista ma passeggero. Non Caronte, ma anima morta, come il resto. Nell’interrogatorio reso al posto di polizia prova a ricostruirsi una diversa immagine. Ammette di essere stato già ricacciato una volta dal territorio italiano. E di aver, quella volta, comandato la nave, ma perché costretto dal ricatto di un padrone della sua vita e del suo passaporto. Stavolta, invece, sostiene di aver pagato regolare biglietto. La versione del numero 136 contrasta con la sua. Lo riconosce come il capitano, quello che ha dato fuoco alla coperta, affondato la nave, inabissato circa 500 vite meno 153.
Se si ripercorrono le file di volti affiora una strana sensazione. Si tende a non distinguere. L’identità cede il passo alla ricorrenza: questo non l’avevo già visto? Il 124 è fratello del 119? Solo i picchi di diversità restano: il bambino con il numero 95, la testa inclinata, lo sguardo buio. Non è così che gliel’avevano raccontata. Non è adesso che può perdonare. Neppure se i genitori che l’hanno ingannato sono morti (154? 155?). La morte punisce, non assolve. Nessuno se ne va in pace.
Tornano, questi volti, come onde. Arrivano, vengono risucchiate indietro, riprendono la corsa. Sono indistinguibili, tenaci e senza futuro, perché alla luce del giorno il mare si appiattisce, copre e annulla.
Sulla spiaggia di Lampedusa sono orme davanti alla marea. Nelle loro facce la consapevolezza dell’accaduto fa a pugni con quella di ciò che accadrà. E niente, nessuno, vince.
La Repubblica 05.10.13