Con la fiducia al governo Letta è stato fatto un passo «ovviamente positivo». Ma non è affatto detto che sia sufficiente. «Per tornare a crescere servono scelte radicali: o Letta e Alfano riusciranno a farle, o sarà difficile per l’Italia uscire dalla crisi». Lucrezia Reichlin, docente alla London business school, ha osservato da lontano le ore più lunghe delle larghe intese italiane. Avrebbe dovuto parlare con l’Unità il giorno prima del voto di fiducia: quando tutto sembrava perduto. Poi il rinvio per un impegno e oggi, scenario molto diverso. Rassicurante, sì, ma anche impegnativo. O la politica esce fuori dal ritornello sulle tasse che l’ha ossessionata finora, e cambia agenda, oppure sarà difficile uscire dalla crisi italiana, argomenta l’economista. Ma per fare il salto serve una politi- ca forte, un nuovo «compromesso» con i cittadini: e non è affatto detto che ci sia.
Come giudica questo passaggio?
«Naturalmente è stato positivo. Minore incertezza politica costituisce una rassicurazione per i mercati e per chiunque non voglia ostacolare la ripresa. Tutta- via se non si fanno cose radicali, l’Italia non esce dalla crisi in cui si trova. Con le prospettive di crescita debole, con i tassi di interesse in salita in tutto il mondo (non solo da noi) e con l’inflazione molto bassa si verificano tre condizioni tutte negative per il rientro del debito. Di qui il persistere di un peso fiscale alto e quindi un problema per un compromesso politico basato solo sull’abbassamento delle tasse. Se una politica di diminuzione delle tasse è realistica e non uno slogan elettorale il problema vero da affrontare è quello della persistenza della spesa».
Difatti Letta ha nominato Carlo Cottarelli commissario.
«Faccio gli auguri a Cottarelli, ma aggiungo che in questo caso non serve tanto un tecnico: la questione è soprattutto politica. Per aggredire questo problema serve davvero un compromesso stabile fatto su un contenuto concreto. Il grande interrogativo è se Letta e Alfano riusciranno a farlo. Oggi in Italia il problema della spesa non è stato ben compreso dai cittadini, tant’è che ognuno lo interpreta in modo diverso. È necessario fare chiarezza».
Con una popolazione sempre più anziana e bisognosa di cure, ci sono davvero margini per agire sulla spesa?
«Io penso di sì. Se non si attacca questa voce, non si cresce. Io sono tradizionalmente favorevole alla spesa pubblica, ma la spesa buona è quella che produce reddito futuro. In Italia oggi non mi pare che accada. Data la crescita debole, con questo livello di spesa non si posso- no abbassare le tasse: non lo si può neanche promettere. Ecco perché bisogna uscire dalla discussione sulle tasse e cominciare a ragionare sulla spesa. Ag- giungo che in Italia il debito è esploso dalla metà degli anni ‘70, cioè quando sono nate le Regioni e l’assistenza sanitaria. Mantenendo la spesa sanitaria, sul resto si può sicuramente agire, cioè sul rapporto tra Stato e amministrazioni decentrate. Comunque il problema della spesa e del debito è complesso, perché è lo specchio del Paese. Il debito rap- presenta anche un equilibrio della distribuzione del reddito su cui i cittadini in qualche modo si sono trovati d’accordo».
Per questo parla di scelte radicali?
«Certo. In Italia bisognerebbe essere radicali su molte cose, perché si tratta di un Paese molto conservatore forse anche per l’età media della popolazione. Vorrei aggiungere che non sono ossessionata dal debito, anzi. I debiti si possono fare, se sono sostenibili. Come ha fatto la Gran Bretagna, che è uscita dalla guerra con un debito al 250% del Pil e ha impiegato 30 anni per ridimensionarlo. Il nostro caso, però, è diverso date le condizioni macroeconomiche. Il debito ci rende molto vulnerabili a tutte le crisi e ci impone una politica di bilancio con margini ridotti».
Ha senso oggi aumentare l’Iva, indebolire il potere d’acquisto, e trovare risorse per correggere il deficit dello 0,1%?
«Io avrei scelto di lasciare l’Imu e evitare l’aumento Iva. Tutti sanno che si è trattato di un compromesso politico. Quanto allo 0,1%, con l’Europa si possono anche trattare flessibilità, ma solo in condizioni di stabilità politica forte e in presenza di un programma di medio periodo che ha l’appoggio della maggioranza della popolazione. Altrimenti rischiamo di perdere credibilità e questo è molto rischioso per un Paese così indebitato».
Crede nelle dismissioni per risolvere il problema debito?
«Non ho i numeri precisi e non posso certo sostituirmi al ministro del Tesoro. Credo che il grosso delle privatizzazioni sia già stato fatto, ma anche su questo dibattito bisognerebbe essere più laici. Se il Paese continua a essere così a rischio e depresso, i nostri asset arrivano a prezzi così bassi che davvero diventiamo terreno di conquista. Io non sono contraria allo straniero, ma penso che si debba evitare di vendere a prezzi stracciati quando non si ha altra alternativa». L’Italia sta perdendo molte grandi imprese. Si può parlare di declino industriale? «È il segno finale di un processo iniziato una ventina d’anni fa: da allora i nostri numeri hanno cominciato a divergere in modo consistente con quelli tedeschi. Abbiamo subito la crisi dei primi anni ‘90 e poi quella del 2008, con finanze pubbliche molto squilibrate e con una classe imprenditoriale che spesso ha preferito ridimensionarsi piuttosto che scommettere sul futuro. Ecco perché dico che servono segnali forti e un nuovo accordo politico. Vedremo se quello che e successo l’altro giorno e il primo passo per costruirlo. E presto per dirlo».
Le banche italiane resisteranno alla prova dell’unione bancaria?
«Il loro problema è la zavorra dei crediti deteriorati, altro effetto della crisi economica. Io sono favorevole alla formazione di una bad bank, sul modello spagnolo. In ogni caso il problema va affrontato subito».
L’Unità 04.10.13