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“Troppo vecchi troppo giovani, quarantenni in troppola”, di Roberto Mania

Sono “vecchi”, considerati poco produttivi, spesso troppo preparati per le mansioni che vengono richieste. Ma sono anche troppo giovani per andare in pensione. Sono in una trappola. Ormai oltre il 60 per cento dei disoccupati in aumento tra un trimestre e l’altro, per colpa di una interminabile recessione, fa parte della categoria di chi ha superato i 35 anni di età. Più della metà dei nuovi disoccupati tra il 2011 e il 2012 aveva tra i 30 e i 49 anni. La disoccupazione ha i capelli grigi. E poca rappresentanza, perché una volta usciti dal circuito lavoro-cassa integrazione- mobilità anche il sindacato non si vede più. Vivono in silenzio, tra rancori, risentimenti, vergogna. Vivono nell’ombra. Vivono di lavoretti, ripiegano aprendo una partita Iva: lavoro autonomo o indipendente. Sulla carta. Diventano soci lavoratori di cooperative fittizie. Un circuito infernale dal quale pochi riescono ad uscire: dal 2008, anno di inizio di questa Grande Crisi, al 2011 le persone in cerca di occupazione da più di dodici mesi sono cresciute di quasi 700 mila, raggiungendo il 53 per cento del totale contro una media Ue del 44,4 per cento. Gli ammortizzatori sociali tutelano solo il 27 per cento di chi non ha il lavoro. L’età per accedere ad una pensione si è impennata vertiginosamente. Nel paese deiprepensionamentiecheancora paga le baby pensioni, però. Vivono discriminati: il 65 per cento degli annunci di ricerca di personale (anche quelli di istituzioni pubbliche) fissa un limite anagrafico, in barba alle regole europee contro la discriminazione. «Per tirare un po’ avanti, vendo la mia collezione di trenini su ebay», racconta Claudio Prassino, cinquantenne di Busto Garolfo, a meno di quaranta chilometri da Milano. «O rinuncio alla mia passione, o muoio. Così prendo tempo, in attesa di trovare qualcosa». La sua storia comincia in un lanificio diBiella.Poiinizialacrisi.C’entra la concorrenza cinese ma anche la miopia di tanti piccoli imprenditori nostrani. Nel 2001 si sposa e si trasferisce a Como, assunto a tempo indeterminato, sempre nel tessile. Ma l’azienda fallisce: i due padroni svuotano i “castelletti”. Anziché accettare la cassa integrazione, Claudio decide di diventare una partita Iva. «Mi mangio ancora le mani per non aver fatto come tutti: andare in cassa integrazione senza cercare un nuovo lavoro. Invece io mi vergognavo di aver perso il lavoro. Non sarebbe stato da me chiedere i soldi in prestito ai genitori. Non stava né in cielo né in terra una cosa del genere». E allora, partita Iva, compensi a provvigione, margini strettissimi, obiettivi impossibili. Contratti a tempo che non si rinnovano. Nel 2011 chiude la partita Iva(«pagavoquasiil60percentodi tasse»). L’iscrizione al Centro per l’impiego di Legnano. La frustrazione di avere dall’altra parte dello sportello persone che sostanzialmente non possono e non sanno aiutarti. La ricollocazione è il grande buco nero dei nostri servizi per l’impiego: oltre il 90 per cento di chi trova un lavoro lo fa attraverso la rete informale delle conoscenze familiari. «Ti propongono di imparare a usare il pc o l’inglese. Ma io conosco entrambi! E poi: se segui un corso non cerchi il lavoro. Anche per essere preso da una ditta di pulizie ti chiedono un’esperienza di due o tre anni. Ma se non cominci mai come fai ad avere esperienza?». Tanti lavoretti a 3-4 euronettiall’ora.«Leaziendehanno timore di assumere un lavoratore maturo. È vero che è già formato, maconsideranoungiovane molto più duttile». Lavoratori giovani e lavoratori maturi: gli uni contro gli altri, senza volerlo. Così un gruppo di quindici quarantenni, insieme all’associazione Atdal over 40, ha fatto ricorso alla Corte di Giustizia europea del Lussemburgo. Contro lo Stato italiano perché con la riforma delle pensioni dell’ex ministro Fornero e l’innalzamento dell’età pensionabile ha provocato «una gravissima situazione di discriminazione a danno di un consistente numero di cittadini in età matura disoccupati e privi di qualsiasi sostegno al reddito». E anche per il «mancato controllo e repressione delle offerte di lavoro pubbliche e private contenenti la discriminazione della barriera dell’età anagrafica ». Scrive Stefano, sociologo della provincia di Roma, uno dei ricorrenti: «Le decine di curriculum inviati ogni settimana di norma non ottengono nessuna risposta

La Repubblica 03.10.13

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“LA GENERAZIONE SPRECATA DEI RAGAZZI QUARANTENNI”, di Benedetta Tobagi

I trenta-quarantenni? Una generazione perduta. Meglio concentrare gli sforzi sui giovani. Così si espresse Mario Monti in un’intervista poco più di un anno fa. La crudezza delle parole dell’allora premier la dice lunga sullo spirito del tempo. Non è un caso che tra le prime iniziative sorte dal basso per alleviare la situazione di questi cittadini, pubblicamente declassati a vuoti a perdere, ci sia stata la creazione di sportelli d’ascolto. Accanto alle difficoltà materiali pressanti, i né giovani né vecchi in cerca di lavoro sono condannati a una sorta d’inesistenza. E il disconoscimento è sempre una delle forme di violenza più subdole e assieme logoranti che si possa infliggere agli esseri umani.

Non esistono misure ad hoc per questa platea, pur numerosa, anche perché essa è virtualmente assente dal dibattito pubblico. I quarantenni rigettati dal mercato del lavoro sono una manifestazione dell’Ombra, direbbero gli junghiani, della società presente. Negli ultimi vent’anni non si è mai avviato un piano di interventi articolati per adeguare la rete dei servizi di welfare, collocamento e formazione professionale, e loro sono il risultato di queste colpevoli omissioni, un indice perennemente puntato davanti a cui è più facile chiudere gli occhi e, finché ci sono le pensioni dei genitori e il welfare famigliare a tamponare l’emergenza, non parlare troppo. Nel disconoscimento della situazione reale di larga parte di questa “generazione di mezzo” pesa anche il fatto che nel sistema mediale lo spazio è quasi tutto occupato dalla rappresentazione del segmento privilegiato. La popolazione benestante tra i 35 e i 45 anni, un mondo di adulti gaudenti che si autodefiniscono ragazzi fino alle soglie dei cinquanta, è un target ghiottissimo per i pubblicitari; accanto ai quarantenni dinamici, esigenti e affermati degli spot, cinema, le fiction e le serie tv raccontano eterni giovani disimpegnati e affettivamente confusi, spesso professionalmente irrisolti, ma con leggerezza. Il dramma sparisce, complice il profondo, diffuso, sentimento di vergogna di quelli che non ce l’hanno fatta. Checché se ne dica, la soglia psicologica dei quarant’anni continua a pesare, e molto. Varcare il traguardo simbolico ancora irrisolti, senza un lavoro, senza un reddito decente, magari costretti a tornare a casa dei genitori oppure a pesare sulle loro pensioni, genera profondi sentimenti di inadeguatezza. Essere rifiutato a un colloquio perché si ha troppa esperienza è umiliante, come pure lo è doversi mettere a reimparare qualcosa daccapo, oppure contendersi un posto sottopagato e non qualificato con chi ha dieci o quindici anni di meno. Per le donne, il rapido declino della fertilità aggiunge un fattore d’ansia che si fa lutto segreto per chi si trova a seppellire un desiderio di maternità divenuto impossibile, perché sono mancate condizioni materiali abbastanza stabili per procreare; non pochi uomini cadono in una depressione strisciante, quando si trovano a non essere in grado di provvedere alla propria famiglia, a dispetto della buona volontà, come pure le madri che non ce la fanno più a far quadrare il cerchio delle loro vite. Un simile impasto di sentimenti, moltiplicato per centinaia di migliaia di soggetti, ha un effetto depressivo sulla società nel suo complesso. Come da qualche tempo si discetta di “felicità interna lorda”, sarebbe necessario cominciare a quantificare il costo e l’impatto di questi fattori immateriali. Il mosaico di queste vite lavorative spezzate, atrofizzate, oppure mai decollate, contraddice chi pensa che per arginare la piaga della disoccupazione e sottoccupazione giovanile basti che si allenti il morso della crisi economica. No: se non si aggiorna tutto il sistema, e alla retorica del conflitto generazionale non subentra un nuovo modo di ragionare sui diritti universali dei cittadini-lavoratori, si potrà forse abbassare quell’umiliante tasso di disoccupazione giovanile del 40% che ci ha rispediti all’annus horribilis 1977, ma il problema sarà solo spostato in avanti di qualche anno.

La Repubblica 03.10.13

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