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“Io e i miei figli, in fuga dalla fame su quel barcone abbiamo visto l’inferno” , di Francesco Viviano

Continua a pregare a ringraziare Dio di avercela fatta, di non essere annegata sul litorale di Scicli come è accaduto a 13 suoi connazionali. Adesso che l’incubo è finito Fatima Mahemed, eritrea, 32 anni, passeggia nel centro di accoglienza di Pozzallo. E sembra una chioccia perché in braccio tiene il figlio più piccolo mentre gli altri tre (tra i 4 e i sette anni), le girano intorno come pulcini. Pulcini che Fatima temeva potessero morire affogati quando la barca si è arenata su una secca ed è successo il finimondo con gli scafisti (5 siriani e 2 egiziani arrestati ieri) che picchiavano tutti, spingendoli in mare per alleggerire l’imbarcazione e tornare indietro, in Libia, da dove erano partiti.
Fatima vorrebbe dimenticare quello che ha vissuto negli ultimi anni e nelle ultime ore, ma non riesce a togliersi dalla mente quei momenti drammatici, i 13 uomini morti affogati, i feriti (due dei quali ora versano in condizioni disperate, mentre 5 ricoverati sono fuggiti e tra i dispersi 22 sono stati rintracciati nelle campagne e condotti al centro di Pozzallo). E così ci racconta il suo viaggio, lungo tre anni e iniziato ad Agordat, 160 km. a ovest di Asmara, Eritrea. «È stato mio marito a decidere: per salvare i nostri bambini dalla fame e dalla guerra non restava che provare a raggiungere l’Italia. Ma lui è rimasto perché i soldi non bastavano. Mi ha detto: “Andate, e se Dio vorrà vi raggiungerò”».
DUE ANNI A KHARTOUM
«Un nostro conoscente mi aveva dato l’indirizzo di Khartoum di una persona che organizza questi viaggi clandestini e siamo partiti, con i soldi raccolti tra i parenti, a bordo di un camion diretto verso il Sudan. E lì sono rimasta: per raccogliere altri soldi lavoravo da cameriera, ma non avevo nessuno a cui lasciare i miei bambini. Due anni dopo avevo mille dollari da parte: 800 sarebbero serviti per il “trasferimento” in Libia. “Prendere o lasciare” mi dicevano. Ho anche pensato di tornare indietro ma avrebbero preteso gli stessi soldi per riportarmi in Eritrea. Così ho accettato: eravamo più di 300, stipati in due camion che viaggiavano solo di notte. Faceva freddo e non avevo coperte per i miei figli. Ma in una settimana siamo arrivati. Ad Al Zuhara e da lì, il 5 settembre i sudanesi ci hanno consegnati ad un gruppo di libici che ci hanno portato in una fattoria in aperta campagna, vicino a Tripoli. Eravamo sorvegliati, come prigionieri. Ho visto picchiare con i manganelli, senza motivo. Abbiamo patito la fame: ci davano soltanto un pezzo di pane al giorno e acqua, che però era salata e ci faceva stare male».
LE LUCI DI MALTA
«Dopo settimane, all’improvviso, la sera di venerdì 27 settembre ci hanno ordinato di prepararci a partire. Siamo andati a piedi fino alla spiaggia, ma altri, 100 o 200, sono arrivati sui camion. Un gommone faceva avanti e indietro fino al barcone, dopo che avevi pagato: nel mio caso, 1.600 dollari, tutto quello che avevo raccolto in Eritrea, “i tuoi figli viaggiano gratis” mi hanno detto. A bordo c’erano uomini con la pelle più chiara (gli scafisti arrestati ieri, ndr).
E siamo partiti: da mangiare, qualche tozzo di pane e acqua, stavamo appiccicati l’uno all’altro, mancava lo spazio anche per respirare. Gli scafisti si davano il cambio al timone: ogni tre ore spegnevano i motori per farli raffreddare e ci fermavamo. Il mare era tranquillo, ma noi stavamo male. Dopo due giorni così abbiamo visto le luci delle case su un’isola, pensavo fosse la Sicilia e invece era Malta. Nessuno ci diceva nulla. E io pregavo».
“LI HO VISTI AFFOGARE”
«La notte dopo abbiamo visto altre luci, quelle della costa siciliana. Eravamo stremati, i miei bambini soffrivano la fame e soprattutto la sete, vomitavano e piangevano, ma ormai pensavo che fossimo salvi: stavamo per arrivare in Sicilia, in Italia». «All’alba di lunedì il mare ha iniziato ad agitarsi e il barcone ha finito per fermarsi, incagliata su un banco di sabbia. È stato in quel momento che è scoppiato l’inferno. Gli uomini “con la pelle più chiara” (gli scafisti
ndr) ci urlavano di scendere da prua, spingevano e picchiavano, mentre il barcone veniva investito dalle onde. Qualcuno si è tuffato, altri
sono caduti in acqua, ma pochissimi sapevano nuotare. Ed è così che hanno cominciato a morire. Li ho visti affogare uno dopo l’altro: tentavano di riemergere ma affondavano. Io sulla barca stringevo i miei bambini, terrorizzata da quel che stava succedendo. Troppo debole per reagire. Eppure la riva era lì, a poche decine di metri. Non so quanto è durato quel caos. Ma so che quando ho infine deciso di scendere con i miei piccoli, altri uomini e quegli altri con le divise (i carabinieri,
ndr) mi hanno aiutata a raggiungere la spiaggia. “Ce l’abbiamo fatta”, ho pensato. Ma intorno a noi il caos continuava: urla, gente che scappava. E quei corpi, tredici uomini eritrei come me, morti sulla vostra spiaggia».

La Repubblica 02.10.13

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