Da quel che se ne sa, l’incontro di ieri pomeriggio fra Berlusconi e i gruppi parlamentari del Pdl è stato più simile a un Politburo che all’assemblea di un partito che vive in una democrazia. Il capo ha parlato permettendo agli altri una cosa sola: di ascoltare. Le domande non erano permesse, le obiezioni men che meno. A Cicchitto che avrebbe chiesto la parola, pare che Berlusconi abbia risposto che se ci si mette tutti a discutere, non si finisce più; e quindi se l’ex capogruppo alla Camera ha qualcosa da dirgli, fa meglio a dirglielo in amicizia, durante una cena, davanti a un buon bicchiere di vino.
Alla fine, Berlusconi ha assicurato che con i ministri e i perplessi del partito «è tutto chiarito». Non sappiamo se sia vero, e se il dissenso sia rientrato a tempo di record. Pare che, in realtà, i contrari alla crisi siano ancora più contrari di prima, per non dire furenti per il trattamento da scolaretti che è stato loro impartito. Bisogna vedere, però, fin dove avranno il coraggio di spingersi.
In questi giorni, infatti, uno spettro si aggira fra tutti coloro che non hanno condiviso il blitz dei falchi ad Arcore.
È uno spettro che ha la forma e la figura di Gianfranco Fini. Troppo fresco è il ricordo del flop dell’ex segretario di Msi ed An. Quando lasciò il Cavaliere, ebbe il plauso della sinistra e di gran parte della stampa: ma non quello degli elettori, l’unico che conta. Fini voleva creare una destra de-berlusconizzata ed è, molto semplicemente, sparito. E perfino Monti, che è Monti, alle urne non ha avuto il risultato sperato.
Insomma è possibile che le cosiddette colombe del Pdl siano tormentate da un interrogativo: se non ce l’hanno fatta loro, perché dovremmo farcela noi? Berlusconi è ancora un grande capo carismatico; i voti li porta a casa lui, non noi. Sembra – la cautela è d’obbligo perché quando si tratta di politica, non c’è mai nulla di definitivo – sembra che sia soprattutto Alfano a temere un fallimento politico, oltre che di passare per traditore. Gli altri sarebbero più determinati a rompere con Berlusconi, ma vorrebbero appunto essere trascinati da Alfano, che è il segretario del Pdl, e quindi darebbe alla svolta un preciso significato politico. E Alfano, come detto, tentenna.
I dubbi sul rischio di sparire e i tormenti del vicepremier sono comprensibili. Ma c’è anche un altro scenario, alternativo a quello di una «fine alla Fini», che Alfano e le colombe dovrebbero prefigurarsi. E cioè: se torniamo ad obbedire come se nulla fosse successo, con quale faccia ci ripresentiamo agli italiani? Solo ieri mattina, i ministri del Pdl avevano emesso un comunicato durissimo, parlando addirittura di «metodo Boffo», un metodo che in serata abbiamo visto riproporsi perfino contro il presidente della Repubblica; poche ore prima erano stati creati nuovi soggetti politici come i «diversamente berlusconiani»; più d’uno aveva escluso di entrare nella neonata, anzi neo-rinata, Forza Italia.
Insomma il dissenso era stato forte e rumoroso. Se ci si rimette in riga solo perché il capo ha intimato di rimettersi in riga, è probabile che ci si garantisca una sopravvivenza: ma con quale faccia si sopravviverebbe, è facile immaginarlo. Tanto più che gli stessi ministri oggi silenziati in un’assemblea da vecchio Pcus (c’è sempre da imparare dai nemici) erano già stati umiliati sabato scorso, quando avevano saputo di doversi dimettersi dalla telefonata di un avvocato del Capo. Neanche dal capo stesso.
Vedremo oggi se davvero la fronda è morta in culla, come sostiene Berlusconi, oppure se i frondisti stanno solo prendendo tempo. Vedremo. Vorremmo però solo aggiungere una cosa. In questa partita non sono in gioco solo la leadership di Berlusconi e il domani di chi non sa se osare o meno un dissenso. È in gioco l’Italia, o almeno una buona parte del futuro dell’Italia. Ieri, ricordando il 25 luglio, abbiamo scritto che allora ci furono uomini che, pur sinceramente devoti a Mussolini, non esitarono ad anteporre a quella devozione l’interesse dell’Italia. Oggi non si chiede di porgere ai fucili la schiena, come capitò a Ciano che del Duce era addirittura il genero; ma almeno di preservare la faccia.
La Stampa 01.10.13