Enrico Letta ha detto in tv che quel che ci vuole è un «fatto politico». Quel fatto è descritto con sufficiente precisione da Ferruccio De Bortoli, sul Corriere della Sera di ieri: la formazione, in occasione del dibattito sulla fiducia che si aprirà domani, di «un’area moderata, che ha a cuore famiglie e imprese, ispirata ai valori liberali del Partito popolare europeo». Un centrodestra moderato ed europeista che dovrebbe dar mostra di esistere. Ma anche di dare appoggio al tentativo di Letta di proseguire nell’azione di go- verno, nonostante la disperata spallata berlusconiana. Un fatto politico: non una fuga alla spicciolata, un manipolo di dissidenti, un disinvolto congedo dal Cavaliere e dal suo destino, ma un’assunzione di responsabilità verso il Paese, la presa di distanza dalla deriva estremistica della neonata Forza Italia e, per questa via, la costruzione di quella casa dei moderati che non ha mai potuto prendere forma sotto la leadership berlusconiana.
Va da sé che in queste ore pronostici ed auspici si inseguono, anche perché, come dicevano i Latini, factum infectum fieri nequit. Traduciamo liberamente: quel che è fatto è fatto. E quel che è stato fatto – non in questi giorni o in queste ore ma in questi anni – non potrà essere cambiato dalle decisioni che saranno eventualmente prese domani. Ma oltre ai pronostici e agli auspici ci sono le analisi, e queste sì che riguardano i fatti.
Ora, è un fatto non solo che Berlusconi ha largamente egemonizzato il
centrodestra per tutto il corso di questa sgangherata seconda Repubblica, mescolando il liberalismo sbandierato alle origini con sempre più massicce dosi di populismo, praticato nella ricerca del consenso come nell’azione di governo. È un fatto anche che larghi ambienti della società italiana si sono troppo poco preoccupati di questa inedita mistura, non riconoscendo per tempo che la direzione intrapresa dal Cavaliere non andava affatto nel senso che oggi coraggiosamente auspicano, ma da tutt’altra parte. Non si vuole con ciò dire soltanto che è troppo facile, dinanzi ad una crisi al buio che potrebbe avere conseguenze sulla tenuta complessiva del Paese – e però, si vorrebbe pure aggiungere, con argomenti dal tono sin troppo emergenziale – caldeggiare il processo di scomposizione e ricomposizione del centro- destra italiano. Si vuole offrire, in più, una chiave di lettura delle vicende politiche che non risparmi le responsabilità di nessuno. Il che significa cominciare a dire, in primo luogo, che il berlusconismo non ha rappresentato un’anomalia solo per il carattere personalistico e padronale delle formazioni politiche a cui ha dato vita, e per l’infiltrazione di interessi privati nel suo profilo, ma anche perché non ha mai tracciato alcuna linea di demarcazione alla sua destra, dal ’94 a tutt’oggi. Con il concorso di responsabilità – va detto – di tutte le leggi elettorali, non solo del Porcellum, adottate durante tutta la seconda Repubblica. Le quali hanno dato tutte, da questo punto di vista, peggior prova del tanto disprezzato proporzionale.
Significa anche, in secondo luogo, che l’erosione della sensibilità istituzionale e del senso dello Stato (e anche del decoro della politica), così evidenti nelle ultime mosse del Cavaliere, con le dimissioni di massa pretese in blocco dai gruppi parlamentari, non appartengono solo alla radicalizzazione seguita a una sentenza definitiva di condanna, ma punteggiano tutta l’avventura del berlusconismo, rendendo fin dall’inizio scomoda la permanenza dei moderati sotto un’unica bandiera. I continui strappi – di Follini, di Casini, di Fini – per ricordare solo i più noti, non datano da ieri. Non solo, ma mentre al centro la tela si strappava sempre in maniera irreparabile, a destra si trovava sempre, altrettanto immancabilmente, il modo di ricucire: con la Lega di Bossi, con i vari Storace e Mussolini, con la Santanché (che oggi addirittura furoreggia al vertice del partito), e di nuovo con la Lega, questa volta di Maroni, pronta ad un nuovo connubio con il Cavaliere se questi portasse il Paese alle elezioni.
È impossibile insomma non vedere una coerenza in questa parabola. Un impasto politico-culturale e la sua fisionomia conseguente: la prova della difficoltà ad interpretare le ragioni del centro, e della facilità ad interpretare invece le ragioni della destra, più o meno estrema.
Può darsi ora che questa vicenda sia giunta al suo epilogo. Può darsi di no. Forse però è giunto all’epilogo almeno una qualche condiscendenza verso gli umori che hanno potuto raccogliersi sotto la comoda ala del berlusconismo. Il proposito dichiarato di cambiare la politica italiana, non solo i suoi comportamenti ma anche le sue liturgie, i suoi riti di legittimazione, ha probabilmente convissuto con l’idea sottaciuta di tenerla piuttosto sotto tiro; in ogni caso il risultato è stato quello di fiaccarla del tutto. Se da domani comincerà un nuovo cammino è presto per dirlo.
L’Unità 01-10-13