Nessun patteggiamento, ripete Grillo mentre la crisi spalanca attimi di panico sul destino del Paese. In piena crisi di sistema, dalle istituzioni messe sotto scacco da Berlusconi alla tenuta sociale ed economica, rifiutare di entrare nei giochi istituzionali è indice di una mentalità, non antipolitica, ma impolitica. Si può anche sostenere che Pd e Pdl sono tra loro eguali. Che tra destra e sinistra nessuna differenza più corre ormai. Si può asserire con sommo disprezzo che le larghe intese siano state una vera sciagura. Che nelle sorde aule del Palazzo ogni vento di novità è soffocato. E tanto vale spostarsi sui tetti di Montecitorio a sventolare bandiere. Ma dopo la denuncia irriverente, dopo il gesto simbolico viene pur sempre il momento della responsabilità. Almeno dovrebbe subentrare. Per chi fa politica, in qualsiasi campo della lotta si collochi, persino nella trincea estrema, esiste dopo la battaglia più irriducibile anche il tempo della condivisione di un terreno comune. È quello che i grandi classici del realismo politico, da Machiavelli a Weber, chiamano il senso della responsabilità verso il mantenimento delle condizioni minimali del vivere sociale e politico. Se proprio questo parziale momento della convergenza sul bene pubblico assunto come avamposto da preservare ad ogni costo viene meno, la prospettiva attesa con una insana ansia salvifica diventa quella della catastrofe che inauguri la distruzione dello Stato e la rivolta incendiaria degli esclusi. Ma non si può fare politica coltivando il progetto di una casa che brucia lasciando dietro solo cenere e disperazione. A meno che non si intenda assumere le stesse corde identitarie dei movimenti della destra più radicale, un ponte tra conflitto e compromesso va postulato come una normale risorsa della politica che costruisce ordini. Rinunciare, per una pretesa scelta di principio non rivedibile, alla contrattazione dopo la lotta, al negoziato dopo la zuffa, significa uscire dal terreno della politica che, per essere tale, non può recidere il suo ineliminabile spirito costruttivo, da far valere anche nelle condizioni più tragiche. Lo diceva con finezza Machiavelli. «A uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo». E cioè tocca in ogni tempo dosare con efficacia il conflitto più radicale con le risorse del consenso, la disputa più intransigente e la resa dei conti più sbrigativa con la tenuta di un ordine politico condiviso.
Quando Grillo disdegna, nientemeno lo fa per una sacra opzione di valore, il possibile compromesso con i nemici, o irride alle figure istituzionali di garanzia ed equilibrio, mostra di prediligere lo scontro come ginnastica perenne o l’instancabile prova di forza come il solo connotato dell’agire politico. «Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano», ammoniva però Machiavelli. E chi se ne intende, qualcuno sembra pur esserci nel M5S, dovrebbe battersi per non spegnere le ragioni della politica, che non tollerano l’inesorabile distruzione di ciò che esiste in nome di un’assoluta volontà di non contaminazione con «la casta».
Dopotutto l’intransigenza di Grillo che rigetta il negoziato con chiunque, che non vuol sentir argomenti nei processi di formazione dei governi, non è così eticamente innocente. È infatti evidente che il rifiuto di siglare un compromesso con le forze democratiche, dinanzi a un Berlusconi che dà fuoco alla Repubblica per assecondare le sue ire distruttive, significa soltanto conferire un pazzesco plusvalore politico al Cavaliere della totale distruzione. Il diniego del negoziato con chi, tra gli errori e le mosse sbagliate che sempre sono oggetto di una critica valutazione, difende la legalità repubblicana coincide soltanto con l’offerta di un tonico di inestimabile significato alla destra distruttiva di Berlusconi.
Quando Grillo grida che nessun patteggiamento egli consentirà ai suoi rappresentanti, non rimane affatto equidistante tra le parti in causa. Toglie di sicuro, con il suo accanito gran rifiuto, dei margini preziosi alle forze della residua lealtà costituzionale e, di contro, rinvigorisce l’animo e le truppe di un Caimano che intende bere il nettare dell’impossibile rinascita sul cranio di una Repubblica uccisa. Se una dialettica democratica si aprirà dentro un non-partito premiato dal 25 per cento degli elettori, molto diversa diventerà l’evoluzione della crisi. Ma il comico genovese rinuncerà a fare il gendarme del Cavaliere consentendo ai suoi deputati di essere diversamente grillini?
L’Unità 01.10.13