Si dice che di buoni sentimenti siano lastricate le vie dell’inferno. Aggiungerei che la quantità di buoni sentimenti esibiti sui diversi aspetti del funzionamento della scuola (da quelli istituzionali e organizzativi a quelli didattici) è tale da fornire non solo i materiali occorrenti per provvedere al lastricato, ma anche per assicurarne un’adeguata manutenzione. Infatti, se dovessimo prendere per buone le dichiarazioni d’intenti che si sono succedute circa la funzione della scuola, il suo ruolo nell’assicurare l’uguaglianza delle opportunità educative, il contributo che essa potrebbe fornire al superamento delle differenze fra allievi appartenenti a diversi strati sociali, il diritto di tutti ad acquisire le conoscenze necessarie per partecipare consapevolmente alla vita politica e sociale nel mondo contemporaneo, potremmo immaginare che l’utopia descritta da Bacone nella Nuova Atlantide si sia finalmente realizzata e che nella società contemporanea la scuola costituisca una sorta di Casa di Salomone, che rischiara col proprio apporto di conoscenze e valori le varie manifestazioni della vita associata.
Evidentemente qualcosa deve esserci sfuggito, se oggi, guardandoci intorno, non solo non intravediamo nulla che richiami alla nostra memoria le caratteristiche della mirabile istituzione uscita dalla penna del grande Cancelliere, ma abbiamo l’impressione del contrario, e cioè che il cammino virtuoso che talvolta aveva fatto pensare alla scuola come ad una istituzione capace di assicurare una certa misura di equità non solo si sia arrestato, ma abbia avuto inizio un movimento retrogrado, che ci riporta a concezioni della natura umana e dei destini sociali che si credevano superate. La grande crescita dei sistemi scolastici nell’Ottocento e nel Novecento (compresa, anche se con ritardo rispetto ad altri paesi, quella del sistema scolastico italiano) è stata resa possibile, se non dal superamento, almeno da un’attenuazione delle interpretazioni deterministiche circa i processi di sviluppo nella prima parte della vita. In altre parole, è del tutto inutile provvedere all’educazione formale di bambini e ragazzi che si considerano per naturaincapaci di apprendere. Senza troppo sottilizzare nella ricerca di giustificazioni teoriche, la spinta sociale all’istruzione ha assunto un carattere antinaturalistico, quando ha affermato la necessità di sottrarre all’ignoranza e alla superstizione quegli strati maggioritari delle popolazioni che da secoli vi soggiacevano. Quando tale spinta si è incontrata con l’irruenza militaresca della cultura del positivismo l’impegno per l’istruzione ha assunto le caratteristiche di una vera e propria guerra: il nemico da battere era l’analfabetismo, il territorio da conquistare erano le quote di popolazione che permanevano in uno stato di soggezione e di mortificazione mentale che si trascinava da secoli.
I nodi teorici dello sviluppo scolastico che in un primo tempo si era evitato di affrontare emersero tuttavia non appena, proprio per il diffondersi dell’alfabetizzazione, incominciarono ad emergere le contraddizioni di società (è il caso dell’Italia) che avevano intrapreso inconsapevolmente un cammino di equità, respingendone però le implicazioni sociali e politiche. Un conto era infatti offrire a tutti i bambini (o, almeno, a gran parte di loro) i primi rudimenti dell’istruzione, altro conto accettare che tali rudimenti potessero essere considerati da parti più o meno consistenti della popolazione il primo passo di un percorso a conclusione del quale poteva intravedersi per alcuni la perdita di una condizione di favore e per altri il raggiungimento di traguardi di equità. Quel che i deterministi nostrani avevano omesso di considerare era che la spinta all’equità doveva essere considerata intrinseca alla crescita dei sistemi d’istruzione formale, come sarebbe dovuto apparire evidente se si fosse considerato che la prima, grande spinta all’alfabetizzazione (quella conseguente alla riforma religiosa di Lutero) aveva avuto l’intento di assicurare a tutti i cristiani le medesime opportunità di accesso alle Scritture: è come dire che la componente dinamica di quella prima alfabetizzazione si qualificava come una sorta di equità delle condizioni per la salvezza.
Assistiamo oggi ad un ritorno di determinismo, anche se variamente imbellettato. In breve, si assumono decisioni che possono essere giustificate solo dall’assunzione preliminare di differenze tra gli individui per ciò che riguarda il loro potenziale di apprendimento. Se il determinismo tradizionale faceva derivare dalla natura la ragione delle differenze tra gli individui, quello attuale ha lasciato cadere ogni reticenza: il successo nell’istruzione varia in modo concomitante alle condizioni sociali degli allievi. Solo la riproposta rituale dei buoni sentimenti che si è soliti associare all’educazione scolastica impedisce di affermare, sic et simpliciter, che solo una parte favorita degli allievi trarrà dalla scuola benefici che potranno segnare positivamente il corso successivo della vita. Nell’educazione si è affermata una linea di pensiero che vorrebbe essere realista, e che a mio giudizio è invece iperrealista: per essa occorre prendere atto di aspetti fenomenici dell’educazione. La linea delle interpretazioni si colloca tutta su un asse sincronico: il successo deriva dal merito, il merito è espressione di qualità intellettuali e morali, tali qualità sono più frequenti in certi strati della popolazione e meno in altri eccetera. Eppure, anche chi si pone su tale linea di pensiero non rinuncia a bruciare granelli di incenso sull’ara dell’equità, come se si trattasse di una divinità che può essere soddisfatta con semplici pratiche di devozione rituale.
È vero invece che l’equità non è una categoria rarefatta e difficile da verificare. L’educazione è equa se, prendendo in considerazione un certo numero di variabili descrittive delle condizioni in cui si pratica, delle procedure tramite le quali si esprime e dei risultati che consegue si riscontra che la loro distribuzione non varia sostanzialmente al variare di altri aspetti di contesto, come la collocazione delle scuole nel territorio o la classe sociale di appartenenza degli allievi. Il nostro è un sistema scolastico iniquo non perché alcuni studenti hanno un risultato migliore di altri, ma perché tale risultato non deriva da interazioni fra le caratteristiche degli allievi e l’offerta educativa, ma tra le prime e un certo numero di fattori non scolastici di contesto. Chi si straccia le vesti per la modestia dei risultati italiani nelle ricerche comparative (per esempio, le rilevazioni Ocse-Pisa) farebbe bene a non soffermarsi solo sulle graduatorie, con ragionamenti da caffè dello sport. Potrebbe, più utilmente, porre a confronto le varianze dei punteggi nei diversi sistemi scolastici. In particolare, vanno considerati due tipi di varianza: la varianza entro le scuole e la varianza fra le scuole . La varianza entro le scuole, se non modificata in modo artificiale (per esempio, tramite sistemi discriminatori di formazione delle classi), ricalca grosso modo le differenze esistenti fra gli allievi. Quella che dovrebbe preoccupare (e che nel sistema scolastico italiano è drammatica) è la varianza fra le scuole. Ci sono scuole buone e scuole che lo sono molto di meno, scuole fornite ampiamente di mezzi e scuole prive del necessario, scuole di città e scuole di campagna, scuole delle aree residenziali e scuole dei dormitori degli immigrati, non importa se italiani o stranieri, e così via: chiunque è in grado di proseguire questa elencazione. I risultati del nostro sistema scolastico preoccupano non solo per la modestia dei livelli medi, ma soprattutto per la disgregazione fra le diverse sedi in cui si pratica l’educazione.
Lo striminzito orario di attività del sistema scolastico italiano è stato giustificato con l’argomento che occorreva allineare l’offerta didattica a quella prevalente in altri paesi europei e che, comunque, si trattava di orari più o meno corrispondenti a quelli finlandesi, ossia a quelli del paese saldamento insediato in testa alle graduatorie internazionali. Anche prescindendo dalla confusione fra orario delle lezioni (comparabile fra Italia e Finlandia) e orario di funzionamento delle scuole (questo secondo orario è incomparabile, perché in Finlandia le scuole sono aperte tutto il giorno e spesso anche la sera per consentire agli allievi di utilizzarne le dotazioni), come spiegare l’alta varianza fra le scuole che caratterizza il sistema scolastico italiano e la varianza minima del sistema finlandese? La risposta non è difficile: il nostro, a differenza di quello finlandese, è un sistema iniquo.
da Tuttoscuola 30.09.13