Alfano “diversamente berlusconiano” sembra il Sordi dell’otto settembre: «Inaudito. L’alleato è passato al nemico». Di sicuro nessuno ha il linguaggio degli Scilipoti e dei Di Gregorio, ma tutti hanno quello della sofferenza vera. Certo, il «siamo e restiamo berlu- sco-nia-ni» ci fa sorridere perché è un paradossale rimprovero a Berlusconi di non essere più berlusconiano, con l’idea pasticciona e comica che il
vero Berlusconi sono loro.
E tuttavia il loro lessico non è da traditori ma da traditi e da umiliati. Cicchitto, per esempio, che è stato il primo a tirare fuori la testa dalla trincea, si sente ferito, non solo nella sua intelligenza e nella sua storia, ma anche nella sua qualità di consigliori: «Una decisione così importante non si può prendere senza discuterne con il gruppo dirigente», cioè con lui.
E si capisce che Cicchitto, come dice, resterà con Berlusconi, o per lo meno con il Berlusconi a immagine e somiglianza di Cicchitto, il quale a sua volta pare diventato improvvisamente Habermas e dunque non più fedele a quell’altro Berlusconi al quale giura di restare fedele (e scusate il pasticcio che, davvero, non è mio): «Berlusconi avrebbe bisogno di un partito serio, radicato sul territorio, democratico nella sua vita interna, un partito di massa, dei moderati, dei garantisti, dei riformisti e non un partito di alcuni estremisti di destra
dall’inaccettabile tonalità anche nel confronto con gli avversari politici». E va sempre bene buttarla in dottrina crociana, ma prima ancora che politica qui la disfatta è esistenziale: è Cicchitto in carne e sangue che non vuole essere trattato «come delle semplici pedine da manovrare, in modo per di più disordinato, ad opera di pochi dirigenti del partito».
E però la frase che entrerà nella storia politica è «sarò diversamente berlusconiano» che è un capolavoro di “angelina” fedeltà e di “diavolino” tradimento, ed è la prima volta che Alfano mostra il quid, che è l’orgoglio ferito dell’ortodosso.
I diversamente abili sono, nel linguaggio del politicamente corretto, gli handicappati, e infatti così si sente Alfano: un berlusconiano azzoppato. E conoscendo Alfano, che è stato sempre il più servizievole, in quel “diversamente” non c’è il voltafaccia su cui la macchina del fango sta già lavorando, ma c’è la morte di una identità. Più che un eufemismo dunque è un ultimo respiro sotto forma di ruggito, anche perché Alfano non è Martelli di fronte a Craxi, ma è il soldato ridotto a carne da macello dal suo generale, è il carabiniere abbandonato dal re.
La cosa che sorprende anche noi è che tutte queste dichiarazioni non hanno il frastuono del fuggi fuggi, non c’è il panico dentro il teatro che dove ciascuno cerca l’uscita ma nessuno la trova, e tutti si calpestano. C’è invece la rivolta del loggione che alla Scala è occupato dai fedelissimi e dai veri intenditori e persino dai generosi come è, secondo noi, Beatrice Lorenzin che non è mai stata in discoteca, non è mai stata una pin up in tacchi a spillo, ma è una maschiaccia di periferia che ci ha creduto per davvero e che ora dice, povera figlia, «tentano di distruggere tutto quello che Berlusconi ha costruito e rappresentato ». Ecco: quando i loggionisti non applaudono più a comando ma mugugnano e persino fischiano, significa che il bluff è svelato: «Fi non può essere un movimento estremista in mano a degli estremisti. Vogliamo stare con Berlusconi ma non con i suoi cattivi consiglieri » dice infatti il ministro Lupi che è stato un capo claque, un superloggionista. Ma anche lui come Cicchitto scopre, solo adesso, di avere assecondato un’illusione cocente, e ancora non capisce che opporre Berlusconi a Berlusconi è uno stilema che la storia ha già consumato con sdoppiamenti ben più importanti e con ben altra forza tragica: il Napoleone dell’Elba, il Mussolini del 25 luglio, e lo Stalin del «resto irri-du-ci-bil-men-te comunista» che era il
refrain dei profughi della cortina di ferro, quelli di “Ho scelto la libertà”. E l’idea di purificare il Berlusconi di oggi innaffiandolo con il Berlusconi d’antan, la certezza di epurare un giorno chi li epura oggi sembra satira: riprenderanno il loro cammino e Berlusconi rinascerà dalle proprie ceneri.
E infatti Beatrice Lorenzin come gli altri «accetta senza indugi la richiesta di dimissioni da ministro» ma non si riconosce «in una destra radicale che mette fuori i moderati senza alcuna riflessione culturale segnandoli come traditori». Sono parole pesate, dove le dimissioni non sono certo uno sfregio ad Enrico Letta, ma il modo più efficace per togliere argomenti ai falchi che li stanno già linciando, in una gara a chi scaglia la pietra più grossa contro gli adulteri. E sul sito di
Libero e sul Giornale sono «attaccati alla cadrega» che è un misto di cattedra e bottega, visibilità e guadagno. E ovviamente «traditori» e «comunisti». E la Lorenzin viene accusata di seguire il marito comunista perché, notoriamente disinformati, i fanatici la confondono con la De Girolamo che ha anche il peccato originale di essere sposata con Francesco Boccia, comunista. E Quagliarello diventa Quagliarella e Quaquaraquà perché ha detto che «piuttosto che far parte di una specie di Lotta Continua di destra preferisco occuparmi del club Napoli della Salaria» che è la frase più sferzante contro la presunzione dei nuovi mostri, senza l’ipocrita venerazione come premessa e anche il biasimo è divertito, l’intelligenza critica è persino scanzonata, a un passo dalla verità.
E mentre Cicchitto viene malmenato da Galan, «ogni volta che parlava ci faceva perdere voti», la Carfagna vince la gara dei servi zelanti: è stata la prima a metterli tutti «fuori dal partito». È il linguaggio della canea, la solita gogna, hanno tutti il fangolino in bocca e lo sputo in canna. Parte la macchina del fango su ordine di Berlusconi (quale?) che di buon mattino, essendo, come ricorda la Gelmini, «ancora e sempre il punto di riferimento dei moderati» aveva affidato la sua minaccia a tutti quelli che gli facevano gli auguri: «Si ricordino la fine di Fini».
La Repubblica 30.09.13