L’immagine è certamente abusata, ed è quella del muro contro muro: ma stavolta davvero non ce ne è altre in grado di fotografare il punto – drammatico – cui è giunta la situazione. A cinque mesi esatti dal suo insediamento (28 aprile) il governo di Enrico Letta appare, infatti, appeso a un filo. Ieri sera il Consiglio dei ministri ha deciso di sospendere ogni attività in attesa del chiarimento reclamato dal premier dopo le dimissioni annunciate dai gruppi parlamentari del Pdl in caso di decadenza di Silvio Berlusconi: e testimoni raccontano che nella sala del governo lo scontro tra i ministri sarebbe stato durissimo.
Dopo settimane di scontri e tensioni, il clima di sfiducia reciproca si è fatto ormai palpabile, e perfino i rapporti personali sembrano irrimediabilmente compromessi. Entro metà settimana il chiarimento arriverà nelle aule parlamentari, e il voto di fiducia che sarà richiesto da Enrico Letta rappresenterà un «momento della verità» oggettivamente non più rinviabile. Il blocco dell’aumento dell’Iva, intanto, è stato congelato in attesa dell’indispensabile verifica tra i due principali partiti della maggioranza.
Il Pdl annuncia manifestazioni di piazza per il 4 ottobre – giorno in cui tornerà a riunirsi la Giunta per le elezioni del Senato – e il Pd pare aver rotto gli indugi: così non si può continuare, ha confidato Epifani ai suoi, se Berlusconi vuole la crisi lo dica, noi siamo pronti.
Il vero punto di svolta, in una giornata tesa come non si ricordava da tempo, è stato rappresentato, forse, dal cambio di passo dei due presidenti – Napolitano e Letta – che hanno considerato non più tollerabili gli attacchi e i quotidiani aut aut del partito di Berlusconi. Che qualcosa si fosse incrinato nella proverbiale pazienza del Capo dello Stato, del resto, lo si era intuito dal tono col quale aveva denunciato – in mattinata a Milano – il venire meno perfino del «rispetto personale», oltre che istituzionale. Nell’incontro poi avuto a metà pomeriggio con Enrico Letta, il Presidente ha potuto apprezzare come anche per il capo del governo un chiarimento definitivo non fosse più rinviabile.
A questo punto, il bivio che si profila è drammaticamente chiaro: se quello del Pdl (con il preannuncio di dimissioni di massa) è solo un bluff per tentare di ottenere in extremis quella che da settimane viene definita l’«agibilità politica» di Silvio Berlusconi, il governo in qualche modo potrà serrare le file e andare avanti; in caso contrario, la crisi diventerà inevitabile e il Paese si ritroverà nuovamente a un passo da possibili elezioni anticipate. Un voto al quale si andrebbe, naturalmente, nelle peggiori condizioni possibili: senza una nuova legge elettorale (e dunque con la quasi certezza del riproporsi di una situazione di difficile governabilità), con il Paese tutt’ora nel piena di una difficilissima congiuntura economica e con la possibilità (il rischio) che l’ondata di discredito e disaffezione nei confronti della politica faccia il resto.
Non erano questi, naturalmente, gli orizzonti e gli obiettivi che si immaginavano per il pur sofferto e anomalo governo delle «larghe intese»: ma era precisamente questo, invece, il possibile epilogo che il Colle e il presidente del Consiglio temevano mentre chiedevano al Pdl ed al suo leader di separare le vicende giudiziarie di Berlusconi dall’attività di governo e dalla sua tenuta. Non lo si è voluto fare, oppure è risultato impossibile farlo: il risultato, purtroppo, non cambia. Il Paese si ritrova di nuovo ad un passo dal baratro: e l’alternativa tra nuove elezioni o l’insediamento di un governo ancor meno coeso e credibile di quello attuale, piuttosto che suscitare entusiasmi solleva pesanti e comprensibili preoccupazioni…
La stampa 28.09.13