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«Ridare dignità alle vittime nell’Italia dei femminicidi», di Alessandra Arachi

Le donne raccontate dai giornali. Esibite in televisione. Cliccate su internet. «Come possiamo ridare loro dignità?». La domanda, a nome del consesso, l’ha posta Annamaria Tarantola. Non è una domanda qualsiasi. Non in un posto qualunque. Ieri mattina al Senato si sono dati appuntamento le istituzioni e i responsabili dell’informazione in Italia per un convegno che sullo sfondo di quell’orrore chiamato femminicidio ha cercato di individuare le radici di così tanta violenza, con l’intento di applicare la cosidetta convenzione di Istanbul che il nostro Parlamento ha ratificato nel giugno scorso.
Coro unanime: il nostro in Italia è un problema fortemente culturale. Lo hanno detto il presidente del Senato Piero Grasso e lo ha ribadito con dovizia di dettagli la presidente della Camera Laura Boldrini, mentre la presidente della Rai ha riferito dati dell’Oms piuttosto inquietanti.
Ha detto Annamaria Tarantola: «I dati dell’Organizzazione mondiale della sanità del giugno 2013 ci dicono che nel mondo più di una donna su 3 è vittima di violenza e che questa percentuale in Italia sale a 1 su 2. Di più. Di peggio: mentre nel mondo le donne uccise dal proprio partner sono il 13% in Italia questa percentuale è incredibilmente del 44».
Non si riesce a star dietro ai femminicidi, in Italia. Ieri a Mantova Franca è stata picchiata con il cric dal marito ed ora è in fin di vita. Ma poi ci sono l’altro ieri l’omicidio di Marta in Sardegna da parte del suo fidanzato e di Ilaria in Puglia da parte del suo convivente.
Come si può ridare loro dignità? La presidente della Rai ha annunciato un lavoro importante che l’azienda sta facendo per ribaltare l’immagine della donna, anche a discapito dell’audience: «Per questo fine non ci interessano gli ascolti». In Rai si sta cercando anche di riequilibrare la partecipazione degli esperti ai dibattiti, oggi sbilanciata verso gli uomini.
Quindi è stato il turno dei responsabili dell’informazione. Ad uno ad uno hanno preso la parola un po’ tutti coordinati dalla vicepresidente del Senato, la Pd Valeria Fedeli, organizzatrice del convegno. Mario Calabresi, direttore della Stampa, ha spiegato che secondo lui «il problema è del punto di vista, bisogna affrontare i racconti dei femminicidi dal punto di vista delle vittime, non degli assassini». Quindi Massimo Giannini, vicedirettore di Repubblica, Barbara Stefanelli, vicedirettore del Corriere della Sera, e Sarah Varetto, direttore di Sky tg24. Le conclusioni a Luigi Zanda, capogruppo Pd al Senato che ha ricordato come oggi nelle commissioni di Montecitorio si discute proprio della legge sul femminicidio.

Il Corriere della Sera 25.09.13

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Dieci Regole per l’Informazione

Ecco una sintesi in dieci punti delle riflessioni delle giornaliste della «27esima Ora» sul ruolo dei media.

1 Evitiamo di riferirci alle donne come «soggetti deboli», vittime predestinate, e agli uomini come «soggetti violenti», in preda a ineluttabili meccanismi mostruosi. Le donne vengono rese vulnerabili, in determinate condizioni, dalla violenza che gli uomini agiscono, in determinate condizioni. Insistere su deboli e violenti in una società che ancora tende a crescere le bambine come dolci e gentili e i bambini come forti e aggressivi conferma uno dei pre-giudizi alla base della non parità e alla radice della violenza.

2 Raptus di gelosia, omicidio passionale, l’ha uccisa, ma l’amava moltissimo. Sono frasi fatte e rifatte da una cultura che pesa sulla libertà di donne e uomini. Non lasciamoci tentare dal lato morboso delle storie. Le storie vanno raccontate, ma proviamo a rinunciare alle parole sbagliate, dai testi ai titoli.

3 Cerchiamo di porre la stessa attenzione nell’iconografia. Spesso proponiamo ai lettori solo le facce, i corpi, i sorrisi delle donne ferite o uccise. Le chiamiamo Angela, Maria, Serena. Rubiamo le loro immagini da Fb. Ma dove sono gli uomini che commettono quei reati? Ombre e, in quanto tali, ci limitano nel decifrare il male.

4 Non si può imporre a ogni articolo o titolo intenti educativi, ma la storia non può partire e fermarsi all’ultimo atto.

5 Non stiamo parlando di un’emergenza, di un’onda improvvisa che si è alzata e che si abbasserà. La violenza degli uomini sulle donne è una realtà che permane nei codici espressi e nell’oscurità dei corpi. Quello che rende strutturale la violenza è la natura stessa delle relazioni violente, anche quando non si concludono con un femminicidio. Sospendiamo la battaglia dei numeri. Stiamo sprecando tempo ed energie che potremmo dedicare alle persone.

6 Offriamo le testimonianze di quante sono riuscite a «venirne fuori». Proporre modelli positivi — donne che si sono chiuse una porta alle spalle e sono state sostenute da forze dell’ordine, magistratura, comunità di accoglienza — aiuta la diffusione di una consapevolezza che oggi in Italia è ancora debole. Una storia che si rivela sbagliata può essere chiusa: esiste un sistema di sicurezza al quale si ha diritto di ricorrere. Quando una donna viene uccisa nonostante ripetute denunce non è perché «non c’era nulla da fare», ma perché c’è stata una falla in quel sistema e su quella falla si deve lavorare.

7 Non basta develinizzare i palinsesti di televisioni-giornali-siti di giornali. Raccontiamo le donne reali: che lavorano o che fondano una propria impresa, che avanzano nella ricerca o nelle istituzioni; che scelgono di dedicarsi alla cura della famiglia senza sentirsi obbligate; che cambiano idea su una scelta precedente senza temere le conseguenze del passo indietro.

8 Gli uomini che «condividono la subcultura della superiorità maschile» sono più inclini a diventare «partner abusanti». E «le donne portate a concepire un ruolo subalterno» nella coppia sono più inclini a subirla. Non ci resta — come mass media — che contribuire al sovvertimento della subcultura generale della diseguaglianza secondo cui la mascolinità si esprime attraverso il dominio. Proviamo a cambiare racconto: raccontiamo che la violenza è fragilità. La scuola può aprire dal basso un laboratorio di idee al quale i media devono partecipare rivoluzionando, insieme, i codici lessicali e le rappresentazioni rosa-azzurre che definiscono le aspettative e determinano i desideri.

9 Evitiamo la contrapposizione maschile-femminile. Non lasciamo che la violenza sulle donne resti una conversazione tra donne. Gli uomini che prendono la parola su questioni di genere spesso temono di essere poco credibili. Invece la voce di un uomo — un giornalista, nel nostro caso — ha effetto amplificato sul pubblico. Allo stesso tempo è fondamentale raccontare gli uomini autori di violenza, dove nascono il rancore e la rabbia e l’incapacità di sopportare un «no» o un «basta». L’esperienza dei centri di ascolto per i violenti si può rivelare utilissima per smontare il meccanismo che sta sotto l’idea sbagliata di virilità.

10 Perché il fattore culturale che definisce i rapporti tra uomini e donne è così resistente? Scrive Lea Melandri che le donne restano legate al «sogno d’amore», il richiamo a un focolare che ne faceva le protagoniste della casa e del rapporto con i figli. E che gli uomini restano prigionieri dell’idea di rappresentare l’universale, frutto di un genere che ha avuto privilegi, ma anche mutilazioni della libertà. Come parlarne senza semplificazioni o denunce spettacolari? Nella nostra formazione dovrebbe entrare una riflessione sulle differenze tra i generi. La libertà di pensiero e giudizio è uno strumento base del giornalismo. Forse dovremmo chiederci perché sia ancora così difficile usarlo quando parliamo di donne e uomini. Molto sta cambiando, ma siamo — noi per primi — in una terra di passaggio. Interrogarsi è un acceleratore.

Il Corriere della Sera 25.09.13