Il barone, oggi, non è austero né lontano. Non dà del lei. Non ha un linguaggio letterario. Il barone d’ateneo italiano oggi va al bar con lo studente, quello privilegiato s’intende. Ride con lui, usa le sue parole, il caffè poi lo paga lo studente. Il barone d’ateneo, salda maggioranza accademica visto che novemila docenti nelle nostre università sono oltre i sessant’anni, allarga la sua corte facendo finta di reclutare giovani intellettuali, dar loro una possibilità in un paese che disprezza cultura e conoscenza. E così, in cambio di un voto generoso all’esame di biochimica, un’illegittima spallata per entrare alla scuola di specializzazione di Cardiologia, il barone d’ateneo ottiene in prestito, in alcuni casi in ostaggio, la vita dei suoi discenti. Devono lavorare per lui a tutte le ore, fare le guardie di notte anche se non sono ancora medici e viaggiare a spese proprie per i congressi italiani a cui il prof non potrà partecipare. Produrre ricerche ponderose, ancora, che poi il docente, solo, firmerà. E si rivenderà per la media Anvur (arrivano così i finanziamenti pubblici). Se lo studente volenteroso si piegherà alcune stagioni e per il resto della vita porterà questa idea di gerarchia dentro, arriverà il giusto insegnamento. Un po’ di carriera, qualche occasione per farsi notare. Se, neoabilitato o specializzando, alzerà la testa, chiederà un rimborso o magari spiegazioni, se alla festa di compleanno del figlio del barone non sorriderà abbastanza, a casa. Avanti un altro.
L’esercito degli universitari disperati è davvero largo, il barone li sostituisce con uno schiocco di dita. Con l’ultimo concorso di Cardiologia alla Sapienza, l’accesso alla scuola di specializzazione, si è scoperto che per passare una prova pubblica che porta a cinque anni d’inizio professione e a uno stipendio da 1.800 euro il mese, serviva accompagnare il direttore di scuola e primario — professor Francesco Fedele, sei pagine di curriculum — in auto. All’università, all’aeroporto, ai convegni, in salumeria. Ora un amico di corso dello studente-autista rivela che lo specializzando premiato non era un furbo lecchino, piuttosto un neoliberto senza via d’uscita. Racconta il “compagno vicino”: «Il cosiddetto autista del professor Fedele è lo studente con la media più alta del mio corso, una persona davvero in gamba che, emigrata da Lamezia Terme a Roma, indisponibile a una nuova fuga, è stato costretto a lavorare come uno schiavo in reparto e, quindi, ad abbassarsi al ruolo di autista. Conosco a memoria i problemi dei concorsi di medicina, accadono da sempre e non so se esiste una cura: i figli dei professori continueranno a entrare saltando la fila. Chi rimane in questo paese non è uno stupido, è qualcuno che crede che si possa migliorare, che questa decadenza sociale possa finire. Finora,
purtroppo, è stato impossibile denunciare un professore e avere una possibilità di entrare con le proprie gambe in una scuola di specializzazione».
I figli, i famigli. Uno studente di Tor Vergata, sulla scia del concorso scandalo della Sapienza, rivela adesso come è stato preparato il prossimo dottorato in diritto pubblico nella seconda università romana (dieci posti disponibili). Lo scritto è andato via il 9 settembre e l’universitario consapevole è pronto a sottoscrivere i nomi dei vincitori in anticipo. Un’anomalia è già chiara: uno dei partecipanti al concorso è il figlio di un cattedratico di diritto penale. Junior, si è scoperto, corre per lo stesso settore di diritto penale e procedura penale di senior, e questo denuncia lo scarso coraggio del “figlio di” nel cercare strade nuove. Il problema serio, però, è che nella commissione giudicante dell’erede del cattedratico c’è la docente con cui il ragazzo è cultore della materia.
Il familismo universitario, ecco, in Italia tocca i migliori. Il professor Attilio Mastino è un rettore, a Sassari, di riconosciuta serietà e sta lottando con i denti e con le unghie per tenere in piedi un ateneo che in una terra di dispersione scolastica e poco lavoro è un avamposto. Da anni, ormai, i concorsi per ricercatori a Sassari sono contestati, una contestazione a bando. E la canea si è alzata anche per l’ultimo: un posto da assegnare a Demoetnoantropologia.
Ha vinto Rossella Castellaccio, che, si è poi saputo, era figlia del professore ordinario Angelo Castellaccio, fino al 30 giugno 2012 vicepreside di Lettere, facoltà affine al mini-dipartimento. Il ricorso non l’aveva certo firmato il figlio di un minatore del Sulcis, era stata Chantal Arena, a sua volta discendente di un ex docente di Medicina. Il maxi-dipartimento di Lettere ha rimandato tre volte gli orali di “demoetno”: tra due “figlie di” non sapeva chi scegliere. E il rettore Mastino è stato in difficoltà personale: tra i sei candidati ammessi agli orali c’era pure la figlia di sua sorella, Susanna Paulis, e del professor Giulio Paulis, ordinario di glottologia ed ex preside di Lettere del vicino ateneo di Cagliari. Il rettore Mastino cita l’articolo 97 della Costituzione: «I concorsi sono pubblici e tutti possono partecipare». Ma puntualizza: «I parenti del rettore hanno zero possibilità di prendere servizio, lo dice la legge 240 del 2010».
I “Pro concorso nazionale (di Medicina) hanno appena raccolto un dossier di storie e di esami con il dubbio. Tra queste, si legge il racconto di un esterno. «Il mio professore ha rivelato che è usanza dell’ateneo capofila passare le domande della prova scritta agli studenti della facoltà interna qualche giorno prima, rendendoci così impossibile competere lealmente con loro». I ragazzi della Link, sparsi in tutta Italia, spiegano che il tentativo della legge Gelmini di allontanare i parenti dalle facoltà è fallito: «Si iscrivono a un altro corso di laurea, ed è fatta». Raccontano poi, soprattutto quelli iscritti al Centro-Sud e in atenei metropolitani — Luca, Alberto, Diana, Lorenzo — come si vive oggi da studente prigioniero in facoltà. «A Medicina, ma anche a Lettere, Ingegneria e Giurisprudenza, ti devi mettere dietro un professore a partire dal terzo anno». Diventerà il tuo tutor. «Devi essere disponibile a lavorare per lui, incontrarlo a casa sua la domenica e fare ricerche, ricerche. Se sono buone, le firmerà il tutor, acquisendo nuovi punteggi per sé e per il suo dipartimento. Le firmerà anche se sono scritte in inglese, quasi nessun barone sa l’inglese. Spesso le ricerche sono solo una scusa per ribadire un’autorità… “Dai un’occhiata a questo paper”, ti dicono, e tu ci passi una settimana. Fuori dall’università lavori per loro e in dipartimento invece di studiare per te fai fotocopie, se ti va bene consigli libri alle matricole».
Ci sono docenti di Architettura che hanno fatto mappare il centro storico di Roma per tre mesi di fila agli studenti assegnati. Il risultato, poi, è stato presentato alla stampa solo dal professore ordinario. Ad Architettura della Sapienza, d’altro canto, un docente si vendeva a duemila euro a esame le risposte per gli scritti dei “fondamentali”: «Mi raccomando, solo contanti». L’universitario italiano sempre più spesso si prepara sui libri di testo del suo tutor: l’ultimo bestseller obbligato per gli ingegneri civili è “Tecnica ed economia dei trasporti” del professor Stefano Ricci, associato alla Sapienza di Roma, centoventi pubblicazioni all’attivo.
In questo clima di contiguità senza uguaglianza accade che esaminandi e preparatori entrino in confidenza: «Inizi a partecipare ai convegni dei professori, presto alle feste di famiglia. Poi, puntualmente, porti la loro biancheria in lavanderia perché i prof non hanno tempo, accompagni la madre a farsi operare di cataratta perché non hanno tempo. Una nostra compagna si è trovata a spolverare lo studio del professore, a casa, perché lui non aveva tempo». Per ottenere l’ingresso a una specializzazione ti scopri a dire sempre sì, «a volte anche alle proposte più sconce».
L’università, dicono loro, i nuovi servitori del sapere, ha baroni
di destra e di sinistra. Credono tutti, senza distinzione, nella fidelizzazione del candidato, a prescindere dall’attitudine. Si è tornati agli anni Cinquanta. Arianna Fioravanti nel 2011 venne cacciata dal dipartimento — e dal dottorato — di Italianistica alla Sapienza. La tutor Biancamaria Frabotta, poetessa del catalogo Donzelli, si offese perché non aveva appuntato al petto l’icona femminista di “Se non ora quando” nei giorni delle proteste anti-Berlusconi. L’assegno di ricerca sarebbe andato alla figlia dell’editore Donzelli, ma il Tar del Lazio, in questi giorni, ha reinsediato al dipartimento la studentessa che aveva alzato la testa. Una delle poche.
La Repubblica 24.09.13