Ginettaccio aveva la lingua lunga, quando voleva, ed era uno che non le mandava a dire, anche col pubblico se la pigliava, se pensava d’aver ragione. Ma su quei dieci mesi passati sul filo del rasoio, ad evitare i posti di blocco dei nazifascisti, tra il settembre del 1943 e il giugno del 1944, è sempre stato una sfinge. Il campione del riserbo. Lo disse pure Indro Montanelli, toscanaccio come Bartali: «Il segreto della popolarità di Gino sta tutto nella sua reticenza».
Ma aveva le sue buone ragioni, Bartali, da ieri “giusto tra le nazioni” come annunciato dal memoriale dello Yad Vashem. C’era un aspetto segreto della sua vita. Preferiva tenerlo per sé e per il suo confessore. Che poi, altri non era che l’arcivescovo di Firenze, Elia Angelo Dalla Chiesa, gran tifoso di ciclismo. L’aveva battezzato, e aveva celebrato il matrimonio con Adriana. Anzi, non c’era poi bisogno di confessare cosa aveva fatto in quei dieci misteriosi mesi: il cardinale sapeva già tutto. Perché era stato lui a coinvolgere Bartali: un giorno gli chiese di portare, nascosti sotto il sellino, pochi fogli arrotolati con molta cura: documenti e fotografie. È una missione rischiosa: ma ne va della vita di tantissimi innocenti. Colpevoli solo di essere ebrei. O antifascisti. Il cardinale detestava il regime, e non l’aveva mai nascosto. Era un uomo coraggioso ed intraprendente. Come Bartali. Che non disse mai nulla alla moglie. E nemmeno agli amici più cari. Ci sto, rispose al cardinale amico.
D’altra parte, la guerra prima o poi sarebbe finita. E le corse sarebbero ricominciate. Poteva uno come lui, che aveva già vinto due Giri e un Tour, smettere di pedalare? No. Ecco, gli disse il cardinale, tu continua ad allenarti. Dillo a tutti. Sei famoso, sei il campione più amato, nessuno sospetterà che dentro il telaio della bici stai portando documenti falsi. E fu così che Bartali divenne la primula rossa a pedali della rete di soccorso Delasem. Ogni colpo di pedale significava la salvezza di tanta gente disperata. Salvò Levi, salvò Coen, salvò Goldman. Salvò centinaia di ebrei, dicono addirittura 800. Lui non li conobbe mai, e questo salvò Bartali. Quando incappava nei posti di blocco, lui non scappava, li affrontava. Finiva quasi sempre che gli chiedevano l’autografo. Una volta, i nazisti stavano per sparargli, ma un fascista gridò che era Bartali, il campione. Un paio d’ore dopo era ad Assisi, con le sue carte false, pedale di una ruota assai più grande, quella della libertà. E della vita.
Un giorno, un regista polacco di origini ebree che voleva girare un film sulla rete di soccorso clandestina, gli chiese di raccontargli come era riuscito ad aggirare sospetti e delatori. Lui tagliò corto:
“Certe cose si fanno, non si dicono ». Gino fece anche di più. Ospitò nella cantina di un suo appartamento a Firenze una famiglia di profughi ebrei. Dopo la morte di Gino, nel 2000, qualcosa è cominciato a trapelare. Qualche anno fa, Sara Funaro e Adam Smulevich del mensile
Pagine Ebraiche, voce dell’Unione delle Comunità Ebraiche, lanciarono un appello per rintracciare i testimoni dell’attività clandestina di Bartali. Nel 2010 Smulevich rintracciò Giorgio Goldenberg: «Se sono sopravvissuto, lo debbo a Bartali». Nel 2011 la commissione dello Yad Vashem di Gerusalemme, il museo sacrario dell’Olocausto, guidata dalla Suprema Corte israeliana, avviò la procedura di riconoscimento del titolo di “Giusto tra le Nazioni”, di persona che ha messo a repentaglio la propria vita per salvare anche un solo ebreo dalla Shoah. Dopo accurate indagini, la commissione il 7 luglio ha deciso di conferire il titolo di Giusto al campione. L’annuncio era previsto per la vigilia del Mondiale su strada di domenica 29 settembre, a Firenze. Il sito di Yad Vashem ha diffuso la notizia ieri. Con Bartali sono 563 i Giusti italiani (nel mondo, 24.811). Un albero verrà piantato
in sua memoria e il nome di Gino resterà per sempre nel Giardino dei Giusti che fa da corona allo Yad Vashem. Sul portoncino d’ingresso di casa Bartali, a Ponte a Ema, c ’è ancora una targhetta. L’ha donata la comunità ebraica. C’è scritto solo Shalom.
La Repubblica 24.09.13