Dopo la conclusione dei lavori della Commissione per le riforme istituzionali, il mio bilancio personale è nel complesso positivo, sia dal punto di vista del metodo di lavoro, sia per quanto riguarda alcune delle proposte riassunte nel documento finale. Il metodo anzitutto: la Commissione ha costruito degli itinerari di riflessione attorno alle grandi questioni costituzionali aperte: la riforma del bicameralismo, la correzione del titolo V, la forma di governo e il sistema elettorale. Lo ha fatto con il metodo della democrazia deliberativa, rinunciando a votare e cercando di far coagulare il consenso attorno ad alcune proposte, registrando le alternative e i dissensi.
Abbiamo iniziato i nostri lavori quasi come se fossimo stati program- mati per dividerci sulla forma di governo, un po’ come quei laptop cinesi che hanno un chip che li porta a rompersi dopo qualche anno. Per questo la forma di governo e la legge elettorale sono state messe alla fine dei nostri lavori, anche per consentire uno spirito meno conflittuale su temi come il bicameralismo e il regionalismo, che si ritenevano meno divisivi. Personalmente, invece, ho sempre pensato che queste fossero le questioni principali e che il bicameralismo perfetto sia la grande anomalia costituzionale italiana, il cui superamento dovrebbe saldarsi a una correzione ma non a un ridimensionamento drastico del sistema delle autonomie. Mi ha sorpreso piacevolmente la quasi unanimità sul superamento del bicameralismo paritario su fiducia e procedimento legislativo (che ancora la bozza Violante-Quagliariello della fine della scorsa legislatura aveva lasciato intatta), anche se tutti ci guardavamo pensan- do alla resistenza che una simile riforma incontrerà poi in Senato. Per me però qui stava il cuore della questione, premessa essenziale anche per la riforma della legge elettorale: solo adeguando il sistema di governo italiano agli standard europei su questo punto era possibile pensare a una legge elettorale almeno in parte maggioritaria.
Mi ha invece sorpreso meno piacevolmente quanto sia cresciuta fra i costituzionalisti (e ancor più fra i non costituzionalisti) presenti in Commissione l’ostilità verso le autonomie, che molti considerano come un impaccio, al punto che nell’ultima seduta ho ritenuto mio dovere richiamare – senza molto successo – il nesso fra autonomie territoriali e democrazia, che è ben chiaro nell’articolo 5 della Costituzione e che era sentire comune della generazione dei costituzionalisti dei primi decenni post-bellici (si potrebbero citare al riguardo alcuni passaggi molto incisivi di Carlo Esposito).
Quando abbiamo iniziato a trattare il tema della forma di governo si percepiva nell’aria un clima di sfida e di «conteggio» delle diverse opinioni, pur dietro allo stile di cortesia forma- le che ha accompagnato tutti i nostri lavori. Ho affrontato il derby fra semi- presidenzialismo e premierato avendo in mente il titolo di un articolo di Leopoldo Elia: «Tutto tranne il francese». Tuttavia ho poi molto apprezzato la disponibilità di una buona parte della Commissione a convergere, sia pure con riserve e in forma sussidiaria, su un sistema di «governo parlamentare del Primo Ministro», proposto dal presidente Violante.
UN PUNTO DI CONVERGENZA
Questa proposta non risulta dalla relazione della Commissione come una scelta netta da essa compiuta, ma piuttosto come un punto possibile di convergenza: l’indicazione popolare del premier, realizzata (come in Germania e Spagna, anche se con regole elettorali più costrittive) attraverso la legge elettorale, mantenendo contrappesi forti come la sfiducia costruttiva e un ruolo di garante ultimo del Capo dello Stato, secondo una logica che anima di fatto i regimi parlamentari europei.
Servirà a qualcosa questo lavoro o il rapporto Violante-Quagliariello andrà a sommarsi agli atti delle varie Bicamerali, potendo essere utilizzato solo per fare le montagne dei presepi natalizi? Non spetta a me dirlo ed è più che mai difficile dirlo ora. Ma almeno una cosa deve essere chiara: ciò che abbiamo tentato di fare non è stato decidere, che spetta ad altri, né preconfezionare la decisione. Abbiamo preparato un percorso per ragionare sui temi che ci sono sembrati più rilevanti, indicando le alternative che sono sul tavolo: non abbiamo raddrizzato la Concordia, ma solo discusso su come si potrebbe farlo. Nessuno di noi si è mai sentito La Pira, Dossetti, Mortati o altri: quelli sono i nostri maestri ultimi, i Padri della Patria.
Il mio auspicio è che il nostro documento possa offrire ai rappresentanti del popolo sovrano alcuni materiali per far sì che la nostra Costituzione non sopravviva mummificata e superata dagli eventi, ma sia viva e vitale nel XXI secolo: il che oggi è possibile solo modificandone incisivamente la seconda parte. Il patto che ci lega, però, resta quello contratto fra il 1946 ed il 1947: e mi ha fatto molto piacere che questo sia stato riconosciuto ormai da tutti, anche dai colleghi vicini al centrodestra.
Resto tuttora stupito dall’ostilità preconcetta suscitata da questo tentativo (e più in generale il percorso complessivo di riforma, con le deroghe limitate e controllate all’art. 138 delineate nel disegno di legge costituzionale in discussione in Parlamento), al punto che si è parlato di «riforma costituzionale della P2» e che alcune personalità che non ho mai ritenuto giuridicamente sprovvedute hanno firmato un appello con tale titolo. A sinistra del Pd (se di sinistra si può considerare il Movimento 5 Stelle) è l’ora del fondamentalismo costituzionale: qualcosa che non sarebbe piaciuto ai Padri Costituenti. Non certo a Dossetti e La Pira, ma credo neppure a Togliatti, se non altro perché tradisce quell’incertezza sulla bontà delle proprie ragioni che spesso si cela dietro agli arroccamenti.
L’Unità 19.09.13