Sono il fattore D della ripresa economica. Le donne imprenditrici stanno aumentando a un passo triplo rispetto agli uomini. E se non si riesce ancora a quantificarne l’incidenza sul Pil, tutti assicurano che la ripresa passa anche da lì. In Italia e all’estero. In Inghilterra è di due giorni fa la notizia, uscita sul Sunday Times, che le mumpreneurs, le mamme che si sono messe in proprio dopo la nascita dei figli, hanno dato una spinta al rilancio economico. Ed è significativo che siano donne il 63 per cento di chi frequenta i corsi di StartUp Britain, la campagna del governo per neoimprenditori. «Il segreto sta nella creatività abbinata alla flessibilità», aveva spiegato in un’intervista alla 27esimaOra l’autrice di The End of Men, Hanna Rosin.
Da noi questa creatività si è espressa con oltre diecimila imprese «rosa» in un anno. Unioncamere ha calcolato che in dodici mesi, da marzo 2012 al marzo successivo, le imprese femminili sono arrivate a un milione 424.798, pari al 23,5% del totale. Le 10.231 unità in più rappresentano quasi i tre quarti di tutto il saldo delle nuove imprese (+13.762). Questi, però, non sono numeri fissi: si portano dietro più posti di lavoro, più reddito, più consumi.
«Nella mia esperienza ho potuto notare che dopo la prima maternità una mamma su tre abbandona il lavoro; dopo la seconda, due su tre»,
racconta Patrizia Eremita, 48 anni, un figlio di sei, responsabile e fondatrice di mammaelavoro.it, società che offre servizi alle donne che cercano lavoro o che vorrebbero aprire un’attività in proprio. Fino al 2010 lei era manager in un istituto bancario inglese, si è ritirata un anno dopo essere rientrata al lavoro dopo la nascita del bambino. «Viaggiavo spesso, il mio ruolo chiedeva una importante disponibilità di tempo. Così mi sono lanciata sul progetto del sito, il primo anno in sordina, poi a tempo pieno. Il vantaggio è che ora riesco a conciliare la vita professionale con quella familiare».
Neppure Sabrina Tassari, 42 anni e tre figli, riusciva più a star dietro al suo incarico di assistente di direzione. «La mia disponibilità doveva essere 24/7 (ventiquattr’ore per sette giorni, ndr). È andata bene per la prima gravidanza, dopo è diventato troppo difficile». Così ha dedicato il 2009 al «quarto figlio», il progetto di una «grotta di sale» a Milano, Halosal, un posto dove igienizzare le vie respiratorie.
«E da un anno finalmente lavora con me un’altra persona e ci dividiamo tra mattina e pomeriggio. Oltretutto questa attività è perfetta con il calendario scolastico, e l’estate riesco a seguire i bambini come voglio».
Mettersi in proprio rappresenta spesso l’unica soluzione per inseguire le proprie ambizioni professionali e soddisfare il legittimo desiderio di maternità.
«Ormai è un fatto che le imprenditrici aumentino a tassi molto superiori rispetto a quelli maschili e che abbiano retto meglio la crisi. Molte di loro all’arrivo di un figlio preferiscono lasciare tutto piuttosto che essere mortificate nelle legittime aspirazioni. Perché l’organizzazione del lavoro è tipicamente maschile»,
interviene Lella Golfo, promotrice con Alessia Mosca della legge sulle quote di genere in Italia. E cita storie di mamme e imprenditrici, alcune delle quali premiate dalla Fondazione Marisa Bellisario, che lei ha fondato e di cui è presidente. Spiega: «Penso a Sara Roversi, bolognese, due figli, che ha fondato con il marito You Can Group Srl, incubatrice di progetti finora vincenti; oppure a Marzia Camarda, che nel 2005 ha creato con due socie Verba Volant, società di servizi per l’editoria tutta al femminile. Anche lei ha un figlio».
Paola Profeta, docente alla Bocconi ed esperta di economia di genere, spiega che non sappiano ancora quante delle nuove imprenditrici siano arrivate sul mercato dopo aver perso il lavoro, dopo essersi licenziate o dopo che il marito è rimasto disoccupato. «L’Italia deteneva il record europeo delle famiglie monoreddito. Adesso non se lo può più permettere. Il loro ingresso comunque fa bene all’economia e contribuisce a rilanciarla».
Questa centralità economica delle donne è certamente di buon auspicio. Tuttavia Simona Cuomo, coordinatrice dell’Osservatorio sul Diversity Management, invita a non perdere di vista un punto:
«Questa è una strada per uscire dalla crisi. Ma non dimentichiamoci che il vero tema è la giustizia organizzativa. Purtroppo la maternità resta un nodo critico nello sviluppo delle carriere: le barriere invisibili restano il maggiore ostacolo».
Il Corriere della Sera 17.09.13