La notizia del superamento del numero di novemilioni di persone che vivono nell’area del disagio e della sofferenza occupazionale, frutto di una recente ricerca dell’Associazione Bruno Trentin, per un giorno ha bucato l’indifferenza sulla condizione del lavoro. Non poteva purtroppo essere altrimenti poiché si tratta di un dato gravissimo che conferma la drammaticità del problema lavoro e ribadisce, nonostante l’ottimismo di maniera che inizia a circolare, come la crisi stia ancora producendo effetti fortemente negativi. Ma poi tutta l’attenzione è sparita, inghiottita dalla vicenda di Berlusconi, secondo una «gerarchia della notizia» assolutamente non condivisibile ma seguita ormai da gran parte del sistema di informazione italiano. Altri aspetti della ricerca, meno pubblicizzati ma non meno importanti, dimostrano il progressivo deterioramento del mercato del lavoro italiano. Per il quinto anno consecutivo la Cassa integrazione supererà il miliardo di ore autorizzate (complessivamente si tratta circa della stessa quantità di ore autorizzata nei 20 anni precedenti alla crisi) e contemporaneamente crescono le richieste di indennità di disoccupazione; ma molte persone, finito il periodo di durata dell’indennità (la disoccupazione di lunga durata è adesso più della metà del totale) non ritrovano lavoro e quindi non possono più farne richiesta, restando senza alcuna tutela. Di quanto si supererà, nel 2013, la cifra dei miliardo di ore lo sapremo solo quando le domande di cassa in deroga, ferme da mesi alle regioni per mancanza di fondi, saranno sbloccate. La crescita della disoccupazione è generale e riguarda tutti i settori e tutte e tre le ripartizioni territoriali del paese, ma nel Mezzogiorno ha superato il 20%. Se al tasso medio di disoccupazione nel Sud si somma l’inattività e la vastissima area di lavoro nero, il risultato è davvero insostenibile. Per questo il Mezzogiorno rappresenta una vera e propria emergenza nazionale. Anche fra i lavoratori stranieri cresce il non impiego, contrariamente a quanto afferma una propaganda puramente xenofoba, e la disoccupazione, già superiore alla media nazionale, continua a crescere. Aumenta poi il dramma dei giovani disoccupati che ormai riguarda 4 persone su 10 della classe di età fino ai 25 anni, ma che è in forte crescita anche fino ai 35 anni di età. A questo si aggiunge la precarietà: fra i giovani che riescono a lavorare, ben il 52,9% (dato tratto dalle comunicazioni obbligatorie e quasi raddoppiato rispetto al 2000) è precario. Si tratta, per la grandissima maggioranza, di una forma di lavoro subita e non scelta, al contrario di quello che ancora una certa propaganda cerca di raccontare. Potrei purtroppo continuare con altri esempi, ma quanto fin qui detto basta e avanza per motivare una considerazione e una proposta. Al di là di ogni opinione di parte la realtà inoppugnabile è che manca il lavoro e non se ne crea di nuovo. La teoria secondo cui per aumentare l’occupazione occorra maggiore flessibilità non solo è sbagliata ma è fallita, lo dimostrano i fatti e i dati. Dal 2012 le nuove assunzioni sono per l’80% di carattere temporaneo ma i contratti precari che cessano sono più numerosi di quelli attivati. È per questo che il numero totale dei precari non cresce nele statistiche ufficiali come invece dovrebbe, con percentuali così alte nelle nuove assunzioni. Molti adesso «preannunciano» la ripresa ma avanzano contemporaneamente la preoccupazione di uno sviuppo che non generi un aumento occupazionale. Certo, se nel 2014 il Pil secondo le più ottimistiche previsioni, crescerà in Italia fra lo 0.4% e lo 0.7% non si genererà nuovo lavoro stabile; si attenuerà ma non si fermerà l’emorragia di posti di lavoro. E allora? Non ci servono previsioni, occorre ribaltare questa prospettiva che ormai è diventata non solo un problema economico e sociale ma un vero e proprio problema democratico. Occorrono coraggio e scelte conseguenti. Quello che serve è uno sviluppo orientato a creare lavoro e l’innesco immediato di questo meccanismo, l’inversione di tendenza rispetto alla situazione attuale, può essere rappresentata solo dalla scelta della creazione di lavoro utile ma stabie. Sono le proposte del Piano per il lavoro avanzato dalla Cgil, ad oggi l’unica idea credibile in campo.
Fulvio Fammoni – Presidente Fondazione G.Di Vittorio
L’Unità 15.09.13