attualità, cultura

“Giornali e potere nell’era di internet”, di Giovanni Valentini

Non solo il giornale di carta ha attraversato con poche modifiche le varie “svolte di sistema” che si sono susseguite dagli anni novanta dell’Ottocento in poi, ma ha prestato forme, professionalità, stili, a cinema e radio, fotografia e televisione; e anche a Internet.
(da “Il secolo dei media” di Peppino Ortoleva – Il Saggiatore, 2009 – pag. 264)
Nel suo anatema mediatico contro i giornali, il guru del Movimento 5 Stelle, Gianroberto Casaleggio, è arrivato a definirli in blocco “strumenti del potere”, come ha sentenziato recentemente al workshop Ambrosetti di Cernobbio. Tutti i giornali, senza distinzioni? E sempre, senza alcuna eccezione?
Si tratta, evidentemente, di una generalizzazione tanto grossolana quanto inaccettabile. Non c’è dubbio che spesso, in Italia e nel resto del mondo, i giornali si lasciano strumentalizzare — inconsapevolmente o meno — dal potere politico, economico, pubblicitario. E a volte, anzi, diventano essi stessi strumenti di potere, nel senso che vengono utilizzati dagli editori o anche dai giornalisti a fini personali o di parte.
Ma condannare tutta insieme la carta stampata significa fare torto all’intelligenza dei cittadini lettori, oltre che alla verità e alla realtà dei fatti. Al fondo di questa visione distorta, c’è un fanatismo ideologico che sconfina nell’idolatria tecnologica a favore della Rete e dell’informazione online. Quasi che i blog, i social network o il cosiddetto “citizen journalism” possano sopprimere e sostituire completamente l’editoria come industria dell’informazione, indipendentemente dai mezzi di diffusione che utilizza.
Chi riflette da anni su questi temi, sa bene che l’avvento di Internet ha modificato non solo le categorie di spazio e di tempo, ma anche il rapporto fra chi produce le notizie e chi le riceve. E sa che la Rete, superando l’esclusività della mediazione giornalistica, tende a sostituire l’informazione “verticale”, dall’alto verso il basso, con una “orizzontale”, circolare, assembleare. Tutto ciò è senz’altro un bene perché favorisce un maggiore pluralismo nella circolazione delle idee e delle opinioni.
Quali sono, però, le differenze fondamentali tra l’informazione professionale e quella spontanea, diffusa, random, dei blog o dei social network? La continuità, la regolarità, l’affidabilità, l’attendibilità e magari l’autorevolezza degli articoli, delle corrispondenze, delle inchieste, dei commenti. Con tutti i loro limiti e difetti, i giornali selezionano le notizie nel flusso quotidiano dell’attualità, le organizzano e le gerarchizzano sotto il proprio brand, con un “marchio di fabbrica”, di qualità e di garanzia. Ed è così che, in nome e per conto della pubblica opinione, possono esercitare quella funzione di “contropotere” che non è opposizione pregiudiziale ai poteri costituiti, bensì controllo del potere nelle sue varie articolazioni ed espressioni.
Ecco perché, contro le profezie ricorrenti, si può prevedere che i giornali non scompariranno mai definitivamente: ovvero non scomparirà quello che il massmediologo Peppino Ortoleva nel libro citato all’inizio chiama il “modello giornale” e la “forma-notizia”, quale che sia il supporto — cartaceo o digitale — su cui i contenuti vengono diffusi. Certo, anche per effetto del turn over generazionale, l’informazione online è destinata nel tempo a prevalere su quella tradizionale. Ma verosimilmente i “quality papers” e i “local papers”, cioè i giornali d’opinione e quelli territoriali, sopravviveranno più a lungo degli altri.

La Repubblica 14.09.13