“Se fossi il papa” – chi non comincia così, oggi. Se fossi il papa, visiterei le discariche dell’Ilva. Ma andiamo per ordine. Nel 2008, in cambio di qualcosa, i Riva padroni dell’Ilva diventarono, versando
120 milioni, il secondo azionista dell’Alitalia rattoppata,
dopo Air France. Settantuno di quei milioni sono stati ora sequestrati dalla Guardia di Finanza, insieme al patrimonio che i Riva avevano scorporato dall’Ilva, per metterlo al riparo: il totale di questo secondo sequestro (il primo superava di poco il miliardo) è di 916 milioni di euro. Sono porzioni pazientemente stanate dalle proprietà Riva per coprire la cifra di 8,1 miliardi, fissata dalla magistratura come l’equivalente di quanto i Riva avevano sottratto al risanamento ambientale.
“Riva Acciaio” ha annunciato ieri la chiusura di sette stabilimenti, Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero, Cerveno (Brescia) e Annone Brianza (Lecco), e due di servizi e trasporti (Riva Energia e Muzzana Trasporti), per un complesso di 1500 lavoratori. Ritorsione che vuol mettere questi lavoratori contro quelli dell’Ilva tarantina, e gli uni e gli altri contro Procura e Gip di Taranto, Patrizia Todisco. Curiosamente, all’elenco di fabbriche serrate (su cui si è equivocato, scambiando Ilva Acciaio, restata della famiglia Riva, con l’Ilva commissariata di Taranto, Genova ecc.: del resto il garbuglio societario era fatto apposta per confondere le acque) si sono aggiunti i 114 lavoratori tarantini della centrale elettrica, la cui chiusura è impensabile se non progettando un’eruzione vulcanica del siderurgico: ai 114 è però stato annunziato che non ci sono soldi per pagarli. Perché i Riva credano che appartenga ancora a loro l’alimentazione elettrica della fabbrica commissariata è difficile capire: e se una distrazione ci fosse stata, sarebbe bene che il governo si sbrigasse a rimediare con un decreto aggiuntivo, e tanto meglio se vi comprendesse anche gli stabilimenti chiusi per ritorsione.
Si sbaglierebbe a vedere nella serrata dei Riva un gioco delle parti col gi à loro Enrico Bondi, che il governo ha lasciato dov’era nominandolo, da amministratore delegato, commissario. Quasi ottantenne, Bondi non è stanco di rottamare e riparare. È probabile che non tenga in conto i Riva, e ne sia detestato. Non li ha traditi: era andato lì per offrire il suo curriculum alle banche, e raddrizzare un naufragio che nemmeno la Concordia. Se è vero, come sostiene la Guardia di Finanza, che intendeva continuare a servirsi dei “fiduciari”, la gerarchia ombra coloniale, dai vertici ai capireparto, cui i Riva si affidavano per il lavoro sporco, ora finita nelle indagini (e in galera), è un bruttissimo scivolone. Il fatto è, spiegano, che per lui – aretino, mordace, suo padre fabbricava casse da morto, non sta lì per i soldi ma per la sfida, e lavora sedici ore al giorno – raddrizzare significa tagliare, ridimensionare, produrre. Ridimensionare quanto? Fino a sette milioni di tonnellate. Tagliare quanto? 5, 6 mila teste. Dei posti di lavoro, e anche dell’ambiente, ammesso che gli importi – non so – comunque non pensa che sia propriamente affar suo. I tagli (prepensionamenti, certo, ma il grosso saranno licenziamenti) sono questione di un paio di mesi. I 1500 di ieri sono un anticipo e un sovrappiù. Per i tagli dovrebbero esserci i sindacati, per l’ambiente e la salute il vicecommissario Ronchi. I sindacati confederali l’altro giorno, quando un operaio è stato vendicativamente licenziato, ed è andato sui tetti con altri compagni a discutere se convenisse buttarsi giù o scendere (sono scesi: evviva), hanno fatto finta che non li riguardasse: avevano un’altra sigla sindacale.
Con un solo operaio alla manovra ferroviaria c’è più sicurezza, dicono. Claudio Marsella, schiacciato, soccorso con un ritardo sul quale si pronuncerà la magistratura, e morto, è un tragico incidente, dicono. Ci sono decine di km di binari, locomotori da guidare, carri da agganciare, basta sentirsi male (a dicembre è successo di nuovo: un operaio è restato svenuto a lungo; un altro si è fratturato un braccio, ma almeno poteva chiamare) e non c’è nessuno a soccorrere e chiedere aiuto. Più operai si intralciano, dicono! Ma basta che uno accompagni l’altro, e intervenga solo alla bisogna. Ebbene: il consiglio comunale di Taranto, all’unanimità (più unica che rara) ha chiesto che si ripristini la libertà sindacale all’Ilva, condiviso le ragioni del licenziato, e chiesto l’immediato reintegro. L’arcivescovo Santoro, che non viene dall’Argentina ma ha fatto un suo tirocinio in Brasile, ha comunicato la sua “vicinanza e solidarietà a Marco Zanframundo – l’operaio licenziato – e ai suoi amici”. Segni dei tempi, che i sindacati dovrebbero leggere: ai cancelli dell’Ilva e nelle strade dei Tamburi si aggira uno spettro, e anche negli altri posti lasciati sguarniti. Lo spettro, l’avete capito, è papa Francesco. Ci mancava lui, penserà qualcuno. Fatto sta che qualcuno ci mancava.
Fossi papa, visiterei le discariche. Dentro l’Ilva hanno una lunga storia da raccontare. Il fatto è, scuote la testa qualcuno, che perfino i suoli e gli argini che dovrebbero contenerle sono fatti di strati di rifiuti speciali, di quelli che la legge dichiara non conferibili. Accanto all’Ilva, la Cementir sta chiudendo la sua area a caldo, il cuore della produzione e dell’occupazione; non smaltirà più la loppa d’altoforno, lo scarto della ghisa dell’Ilva altamente inquinante, che da qualche parte dovrà andare – a cementare il mare, come a Trieste o a Bagnoli? … Del piano che metta insieme la sbaragliata siderurgia italiana si sa poco o niente. La cokeria di Taranto potrebbe esser sostituita da quella meglio governata di Piombino, che potrebbe compensare la chiusura dell’altoforno con il forno elettrico, e guadagnarsi con la Concordia e il porto riattrezzato il credito per le rottamazioni navali a venire, che la legge europea non farà più andare a impestare il terzo e quarto mondo… Altrettanti naufragi di cui fare virtù, se si sapesse. C’è un ministro dell’ambiente giovane e, per così dire, impregiudicato. Ci crede, Andrea Orlando, alla copertura dei parchi minerali (950 milioni, se arrivano), discariche a norma secondo le migliori tecnologie disponibili, controllate da Ispra e Arpa… Non è un papa, solo un ministro, e di un governo tramortito – ma anche i papi sono diventati a scadenza. Governo, e suoi commissari, hanno un piano che si aggira sui 2 miliardi, o poco più. Magistratura di Taranto e suoi esperti avevano calcolato 8 miliardi, e ordinato un sequestro equivalente: arrivato a poco più di due, finora. Poi c’è quel problema dei tumori, e quell’altro problema dei posti di lavoro.
La Repubblica 13.09.13
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“ACCIAIO BUSINESS STRATEGICO L’ITALIA È SECONDA IN EUROPA”, di Diodato Pirone
Per una volta fra gli economisti di ogni fede l’opinione è unanime: il caso Ilva sta ricordando agli italiani quanto sia importante l’industria per il nostro futuro. Accantonati dagli anni della grande abbuffata della finanza, ora operai, tecnici e imprenditori metallurgici riaffiorano sulle prime pagine dei giornali risalendo le radici profonde del sistema industriale italiano.
Prima del drammatico caso Ilva chi si ricordava che l’Italia è il secondo produttore europeo d’acciaio (senza sfigurare con la Germania) e l’undicesimo nel mondo? Lo abbiamo dimenticato perché negli anni Ottanta, quando gli americani abbandonarono le loro acciaierie arrendendosi ai costi bassi degli asiatici che sfornavano immense petroliere come panini, l’acciaio italiano come quello delle ”economie avanzate” ha finito per perdere la sua strategicità. In fondo, la prima e la seconda guerra mondiale altro non erano state che tragiche contese per spartirsi le fonti di energia (carbone) e dei prodotti industrial-militari (l’acciaio). Tanto che nel secondo dopoguerra, senza perdere un minuto, italiani, francesi e tedeschi diedero vita al primo embrione di Europa pacifica proprio partendo dalla Ceca (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio).
Con leggerezza gli italiani hanno finito per gettare nel dimenticatoio una delle più belle pagine della loro storia economica: l’epopea delle nostre acciaierie, giganteschi trampolini del miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta. Allora un grandissimo manager pubblico come Oscar Sinigaglia, con enormi investimenti di Iri e Finsider, assicurò all’Italia le complesse acciaierie a ciclo integrale. Vicine al mare (e dunque ai porti) le fabbriche di Cornigliano, di Bagnoli e più tardi di Taranto producevano l’acciaio fondendo a temperature altissime i minerali ferrosi importati via nave da tutto il mondo.
L’EPOPEA
Così le catene di montaggio della Fiat ebbero la possibilità di sfornare tutte le 500 e le 600 che gli italiani ordinavano. Cos ì ben presto si allargò la schiera di industriali privati del Nord che lavoravano l’acciaio grezzo con i loro forni elettrici per trasformarlo nei tondini per le case popolari e l’espansione delle città, in lamiere di vario genere alla base del boom del made in Italy meccanico, nei profilati famosi in tutto il mondo. I loro nomi hanno segnato un’epoca: Steno Marcegaglia (un ex sindacalista Cgil) scomparso in questi giorni, Giovanni Arvedi, i Falck, i Pasini, Luigi Lucchini (anch’egli morto due settimane fa), Emilio Riva.
LA STRATEGIA
Ma ai nostri giorni qual è la morale economica che si pu ò ricavare dal «caso acciaio»? «Non è vero che lo sviluppo dipende solo dall’alta tecnologia – risponde il professor Patrizio Bianchi, una vita dedicata all’economia industriale – E’ strategica anche la tecnologia media. E’ fondamentale per l’Italia evitare il cosiddetto unbundling produttivo, ovvero la separazione fra produzioni a maggior valore aggiunto e lavorazioni più povere. L’intera filiera dell’acciaio va salvata». Perché professore? «Semplicemente perché non possiamo permetterci di perderla».
Il Messaggero 13.09.13