L’articolo di Stefano Rodotà pubblicato su l’Unità invita a ricondurre al piano del confronto pacato e argomentato la discussione sulla revisione della Costituzione. È un dato positivo, perché non sempre è stato così, negli ultimi tempi. Lo dimostrano, fra l’altro, le oltre 400 mila adesioni all’appello di un noto quotidiano che proclama (nientemeno!) «non vogliamo la riforma della P2».
E lo dimostrano il tono e il contenuto di alcune delle critiche rivolte al percorso di revisione che la Camera ha appena approvato. È stato detto, ad esempio, che oggi una revisione della Costituzione non sarebbe possibile perché dovrebbe costruirla un Parlamento delegittimato dall’essere stato eletto con una legge elettorale non solo impopolare, ma anche incostituzionale. Un ragionamento di questo tipo, però, deve essere conseguente: se legittimazione non c’è, non c’è per nessuna delle decisioni dell’attuale Parlamento, nemmeno per quelle – che so – in tema di imposizione fiscale o di ordine pubblico. Che facciamo, allora? Invitiamo gli italiani a non tenerne conto?
Si è anche detto che una revisione concordata da Pd e Pdl sarebbe assurda, perché questi due partiti non avrebbero nulla in comune, sicché il loro accordo potrebbe partorire solo un infante deforme. Anche qui c’è ragione di sorprendersi: forse la Costituzione del 1948 è stata scritta da forze politiche armoniosamente omogenee? E chi tiene alla logica del parlamentarismo non ha sempre pensato e detto che il bello di quella forma istituzionale è la ricerca del dialogo e del compromesso con l’avversario, entro un percorso di dibattito democratico? Dire pregiudizialmente no a qualunque confronto perché l’avversario non piace è proprio quello che chi ha a cuore il Parlamento e la rappresentanza politica non deve fare.
Ora, Rodotà prospetta due obiezioni di ben altro peso e serietà: che il procedimento previsto dal disegno di legge di revisione, visto che deroga all’art. 138 della Costituzione, sarebbe rischioso e illegittimo; che quel procedimento preluderebbe non alla «manutenzione», ma alla «manomissione» della Carta. Vediamole.
Sulla prima obiezione c’è poco da aggiungere a quanto già si sa: noi costituzionalisti siamo divisi fra chi sostiene che l’art. 138 non possa essere derogato e chi – come me – la pensa all’opposto. Qui, insisto, il punto essenziale è che la deroga deve lasciare intatta l’essenza di valore del procedimento di revisione, in particolare la garanzia delle minoranze e quella del voto popolare. Poiché il disegno di legge di revisione prevede che il referendum approvativo si tenga anche se la riforma della Costituzione è approvata con una maggioranza dei due terzi, a me pare che le garanzie costituzionali, sia per le attuali minoranze che per il corpo elettorale, siano state addirittura aumentate.
Quanto alla seconda obiezione, va detto che Rodotà ha perfettamente ragione quando distingue fra manutenzione e manomissione della Costituzione. Il problema, però, è identificare con precisione il confine fra le due. Lo stesso Rodotà riconosce che sono essenziali «la riduzione del numero dei parlamentari e l’abbandono del bicameralismo perfetto». È giusto. Ma non è forse vero che intervenire sui rapporti fra Camera, Senato e potere esecutivo significa incidere anche sulla forma di governo? E non è necessario, a questo punto, affrontarla direttamente, la questione della forma di governo, favorendo, senza indulgere ad eccessi plebiscitari, quella stabilità dell’esecutivo che è il vero problema della nostra esperienza costituzionale? E, visto che il Senato dovrebbe trasformarsi in camera di rappresentanza delle autonomie territoriali, non sarebbe necessario intervenire anche sull’attuale Titolo V della Costituzione, improvvidamente modificato nel 2001 da una legge di revisione (che seguì il procedimento dell’art. 138!) che ha creato innumerevoli problemi di funzionamento al nostro regionalismo?
Insomma: chi ama la Costituzione non può non cogliere l’emergere di alcuni punti di sofferenza e non può non agire per migliorare le cose. Rodotà chiede che si riconosca agli oppositori (in buona fede) dell’attuale tentativo di revisione di non essere ciechi conservatori. Anche qui ha ragione. Ma anche a coloro che (in buona fede) quel tentativo sostengono si deve riconoscere di non essere degli occulti eversori. Se faremo questo, il dialogo potrà riprendere sul saldo terreno della ragione. Anche perché è paradossale che si sia interrotto proprio fra chi tiene esattamente alla stessa cosa: la difesa dei valori della Costituzione repubblicana.
L’Unità 12.09.13